La sindrome di ADL

Il calciomercato chiuderà, almeno si spera, il 17 agosto. Tutti gli espertoni e dirigenti mancati, che traboccano in qualsiasi tifoseria, hanno ancora tempo per discutere su quale sia la squadra uscita più rinforzata tra Napoli, Juventus, Inter sino ad arrivare anche alla grande e prestigiosa Puteolana.

C’è ancora tempo per veicolare il concetto, oramai ampiamente diffuso, del “papponismo” e delle continue disfatte che, pensate un poco, ADL sta inanellando da 14 anni. Perché tre qualificazioni consecutive per la Champions League e due scudetti sfiorati, e mancati solo a causa della strapotenza juventina, paiono briciole ad una parte di tifoseria che viaggia fuori dalla realtà.

Che il padrone, e mica presidente, del Napoli sia poco avvezzo al silenzio, è cosa nota. Che avrebbe dovuto astenersi da critiche insensate, a tratti insulti, verso Sarri, che ha dato tutto ciò che poteva (anima compresa), è evidente. “Non farmi pensare ai 91 punti perché sono serviti solo a chi dico io” o, se preferite, “Sarri è un maleducato” sono cadute di stile ingiustificabili per un numero uno di una società tanto importante.

La comunicazione offensiva verso la stampa (“giornalisti disinformati e ignoranti”), è nauseante. L’odio fatto filtrare nei confronti dei tifosi è un’assurdità.

Se, però, si vogliono analizzare la gestione imprenditoriale, precisa sino all’ultimo centesimo, o la politica societaria, c’è ben poco da recriminare. Per risultati, si sta assistendo alla migliore era della storia del Napoli, anche superiore a quella Ferlaino.

Due vittorie della Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e salubrità patrimoniale unica in tutto il campionato. A differenza dell’era del cosiddetto “presidente-tifoso”, che per qualche successo (pochi) distrusse una società intera, portandola al fallimento del 2004.

Facile investire senza coperture finanziarie. Più complesso restare competitivi e forti economicamente allo stesso tempo, unico merito che Aurelio può conferirsi.

Disprezzare perché non arrivano “top players”, categoria di calciatori basata sul nulla, è impensabile. Contestazioni vittimistiche e offensive, come quelle degli ultimi giorni, raschiano il fondo di una vera e propria patologia, di cui alcuni tifosi sono affetti: la sindrome di ADL. Consistente nell’attaccare, anche sul personale, sempre e comunque, anche quando non c’è una giusta ragione per farlo.

Dopo un campionato che ha visto il Napoli terminare secondo con 91 punti (record storico) e una campagna acquisti bella proficua (85 milioni spesi, altro che “braccino corto”), oltre che l’arrivo di un “top coach” di spessore internazionale, sembrano fuori luogo proteste tanto esacerbate, come se fosse nell’aria una sciagura prossima ventura, che nessuno, neanche tra le “rivali”, si sognerebbe di prevedere.

Per carità, elogiare troppo perché “non c’erano i palloni”, “ha riportato il Napoli in Europa” oppure perché “il calcio è business” è altrettanto impulsivo.

“In medio stat virtus” (= “la virtù giace nel mezzo”) sosteneva la scolastica medievale, riprendendo alcune frasi dell’Etica Nicomachea di Aristotele. E’, dunque, giusto criticare quando ADL sbaglia (spesso, come quando si erge a Salvatore, attaccando i tifosi). Altrettanto corretto è complimentarsi quando realizza fatti apprezzabili (l’arrivo di Ancelotti e la costruzione di una rosa altamente competitiva).

Aurelio non è il migliore presidente auspicabile (tutt’altro), né tantomeno un “pappone”. E’, semplicemente, il più furbo di tutti. Ma nessuno, o quasi, sembra averlo capito.

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