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Mertens oltre ogni limite

Nel calcio c’è un presupposto invisibile e non detto che ha a che fare con l’espressione massima del talento di un calciatore, con la sua evoluzione e i suoi limiti. Se non cado troppo nell’astrazione vorrei identificare questo presupposto (o preconcetto, insomma un’idea con la quale filtriamo e misuriamo la maturazione degli atleti) con la linea verticale del cerchio di centrocampo, che se in campo divide zone speculari e diverse per le squadre, in questo caso ci riconsegna la differenza tra il talento difensivo e quello offensivo. Insomma, è materia nota che la base su cui si fonda un grande difensore è l’esperienza, l’essere dribblati fin da bambini è l’unico atto che permette la lettura anticipata delle mosse dell’attaccante. Un grande difensore si riconosce dal numero di umiliazioni ricevute, e solo in un secondo momento dalla capacità di anticipo, di lettura delle situazioni e tempismo. È solo grazie al passare del tempo che, e questo discorso vale soprattutto per i centrali, un difensore raggiunge il proprio prime psico-fisico. (Giusto qualche esempio contemporaneo: Fabio Cannavaro ha vinto il Mondiale e il Pallone d’Oro a 33 anni, Van Dijk la Champions da protagonista a 29, Sergio Ramos è diventato fulcro del Real Madrid a 28, ecc.).

Allo stesso tempo, l’altro estremo, ovvero la zona dei trequartisti / attaccanti / esterni offensivi rappresenta per riflesso la fotografia del talento puro. Dall’attaccante della nostra squadra pretendiamo tutto e subito, una maturità calcistica innata e soprannaturale; vogliamo che faccia un gol, poi un altro, e un altro ancora. Non ci basta mai. Non abbiamo nessuna comprensione pietosa come nei confronti dei difensori; è una di quelle leggi calcistiche primitive e infantili, e non c’è una via di scampo: in attacco o sei forte o sei scarso. In fondo di quanti anni di apprendistato o umiliazioni hanno avuto bisogno Diego Maradona, Johan Cruijff, Lionel Messi o Pelé per diventare leggende?

Nessuno.

Così, non è scontato riuscire a empatizzare con la storia di Dries Mertens, ovvero la storia di un esterno d’attacco a piede invertito incompiuto fino ai 29 anni e da lì diventato uno dei migliori centravanti del decennio in Serie A e il miglior marcatore nella storia del Napoli (141 gol), staccando Maradona. Il talento di Mertens non è semplicemente naturale, ha certo a che fare con la genetica e i suoi gol più iconici ne sono una manifestazione, ma sono anche frutto della maturazione, dell’invecchiamento.

Non avremmo mai visto due gol artistici come quelli che Mertens ha segnato alla Lazio, se non avesse aggiornato il suo livello calcistico mattoncino dopo mattoncino fino ad arrivare a oggi, a 34 anni, con il contratto in scadenza a giugno e la volontà di chiudere la carriera con la maglia del Napoli (il che, appunto, potrebbe succedere tra sei mesi). Non avremmo mai visto gol di quel tipo se, in qualche modo, non fossimo a conoscenza del fatto che la stella di Mertens, per quanto giovane, è destinata a collassare a una velocità siderale.

Un esempio di come Mertens mette a frutto le sue conoscenze calcistiche, e le unisce alla sua capacità unica di calciare con qualsiasi parte del piede (e in questo c’è da dire che diventa complicato trovare un calciatore che usa il collo-interno allo stesso modo della punta e dell’esterno), è il gol del 3-0. Quando Fabian Ruiz allarga su Lozano, Mertens è in una posizione ibrida appena dentro l’area di rigore, marcato da Acerbi e Luiz Felipe. E nel momento in cui si stacca per offrire una linea di passaggio appena oltre i 16 metri, leggermente spostato a destra, gira la testa (dando le spalle a Lozano) per memorizzare la posizione di Reina, troppo spostato sul primo palo, e valutare gli assi della porta.

Ovviamente starei scrivendo del nulla se Mertens non avesse spostato rapidamente il baricentro del suo corpo piccolo e duro all’indietro e calciato in maniera impeccabile, incastonando un pallone innocuo appena sotto l’incrocio dei pali con un colpo che ricorda il lob tirato da un tennista che non ne può più di uno scambio a rete.

In questo senso, Dries Mertens non calcia il «pallonetto» già solo per un motivo estetico e ornamentale, quanto lo usa per ingannare i portieri avversari. Esattamente come fece contro Joe Hart in un Napoli-Torino di cinque anni fa, Mertens calcia di collo-interno a scendere perché sa che quello è il modo migliore in cui può segnare, quello più efficace.

È al tempo stesso una soluzione pratica e beffarda: come se dalla sua prospettiva, Mertens trovasse divertente vedere persone alte almeno 20 se non 30 centimetri più di lui cadere a terra in pose sempre più goffe senza capire la traiettoria dei suoi colpi. Per Dries Mertens calciare il lob è uno sfizio personale e tamarro: alzare il pallone così in alto in modo tale che anche portieri statuari non possano far altro che fermarsi a guardare lo spettacolo, come per dire: io sarò pure più basso, ma voi non siete un cazzo.

Al contrario di quello che spesso pensiamo quando vediamo giocare un attaccante basso, per Mertens essere alto poco meno di 170 cm è un vantaggio assoluto. La brevità delle sue gambe e del suo fondoschiena, entrambi tonici e arcigni come quelli di un ciclista, gli permette di coordinarsi meglio nello stretto e di nascondere la palla ai suoi marcatori grazie all’agilità.

Dopo la partita contro la Lazio, Mertens ha detto che avevano ragione quelli che dicevano fosse finito, fosse troppo vecchio, e che il Napoli aveva persino sbagliato a rinnovargli il contratto dopo l’infortunio alla caviglia. «Spetta a me dimostrare il contrario, per il resto le critiche ci stanno e io devo accettarle».

Questo è uno dei lati curiosi di Mertens. In che senso spetta a lui dimostrare di non essere finito? Cosa ha ancora da dimostrare, dopo 107 gol in cinque anni? Ai tifosi del Napoli niente, questo è certo. Durante questi otto anni i napoletani lo hanno visto identificarsi con loro quando si è mascherato da Insigne per Halloween, oppure quando nello spogliatoio si faceva riprendere mentre cantava Abbracciame di Andrea Sannino. In poco tempo Dries Mertens è diventato un emblema culturale per Napoli e i napoletani, al punto da essere soprannominato “Ciro” (lo stesso nome che darà a suo figlio, una scelta non banale, appunto).

La rinascita di Mertens nel giorno dedicato all’inaugurazione della statua di Maradona, e il fatto che abbia segnato il primo gol contro la Lazio al decimo minuto, possono sembrare coincidenze sciocche e irrilevanti. Magari lo sono, non è detto che “Ciro” possa reggere una stagione intera su questi livelli, e anche la sua integrità fisica non è delle migliori, considerando gli interventi alla spalla e alla caviglia che ha dovuto subire a distanza di sei mesi. Eppure, magari Dries Mertens in qualche forma avrà pensato a quelle coincidenze. Al fatto che dopo questi otto anni, a Napoli non sarà emotivamente secondo a nessuno. Avrà pensato al giorno in cui, se davvero riuscisse a vincere lo Scudetto (e sembra che questo sia uno dei suoi ultimi tentativi), sarà dedicata anche a lui una statua come quella di Maradona.

Avrà pensato che in fondo per Napoli Dries Mertens non sarà mai più un semplice giocatore di calcio, ma che è diventato un simbolo. Una leggenda, a modo suo, e che è potuto diventarlo solo con lo scorrere del tempo, solo crescendo e invecchiando.

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