Home Copertina Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (ultimo atto)

Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (ultimo atto)

Si diceva quindi di quella sorta di malessere mista a insicurezza che, vista dall’esterno, sembra attanagliare Lorenzo Insigne, anche all’alba dei 30 anni. Per scandagliare l’essenza del gioco di un numero 10 così paradossalmente fine e egocentrico, umile e al tempo stesso pacchiano nelle scelte, è impossibile non analizzarne la tecnica, ovvero il rapporto con il pallone. Per capire anche perché in fondo se parliamo di Insigne, parliamo di un atleta incompleto. Che abbia ancora qualcosa da dimostrare.

Dare del tu al pallone

Innanzitutto, oserei dire che a Insigne non piaccia calciare in porta. Se non fosse costretto dalle dinamiche del campo – o provocato da un ego che in certi momenti trascende il suo talento e lo trasporta in una realtà in cui crede di poter segnare da centrocampo o a giro da qualsiasi posizione, anche quando avrebbe spazio per incrociare con il sinistro o chiudere sul primo palo – non getterebbe una goccia di suore per trovare l’angolo giusto per ingannare il portiere o piazzare la palla secondo uno schema razionale di pensiero. Il fratello maggiore, Antonio, ha detto di avergli insegnato a calciare personalmente, e che quando perdeva (Antonio è di 3 anni più grande) piangeva: «Aveva neanche sette anni e non ammetteva sconfitte. Io ridevo, poi baravo. Lo facevo vincere così non ero costretto a sentirlo». Dal vivo la sensazione che per Insigne tirare – ovvero un gesto strettamente legato al senso stesso del gioco – sia innaturale, se possibile aumenta. La sua grazia innaturale, unita ai calzettoni abbassati che gli danno un’aura mistica e insieme un po’ ridicola, si riflette in scelte sbagliate: a volte succede che si coordini male, oppure calcia quando ha il pallone sotto il peso del corpo, o ancora cerca semplicemente una soluzione troppo elegante per i suoi mezzi tecnici. Come se non avesse nessuna capacità di adattamento a situazioni complesse e la sua insicurezza si incarnasse una paura reale, materiale; che ci arriva guardandolo tentare continuamente lo stesso colpo, nella speranza che arrivi il tiro della svolta, della gloria.


Insomma, se molte delle sue idee potrebbero essere inserite nel breve inventario delle imprese geniali del calcio italiano degli ultimi anni, la realizzazione di quelle idee è stata spesso il freno che ha portato Insigne ad allontanarsi dall’essenza dei migliori calciatori del mondo. In questo la carriera di Insigne assomiglia più a certi romanzi di Haruki Murakami, in cui la ricerca, le evoluzioni psicologiche ed esistenziali dei protagonisti non confluiscono mai in una storia delineata dall’inizio alla fine. Ecco, mi sembra che un calciatore che riesce a segnare al Real Madrid da 40 metri con un pallonetto beffando Navas (sì, lo stesso Real Madrid e lo stesso Navas delle tre Champions League consecutive) e allo stesso tempo capace di essere l’assente più pesante in partite come Napoli-Verona di quest’anno, o Fiorentina-Napoli dell’aprile del 2018 (e potrei continuare per ore), risponda bene a queste caratteristiche. In Norwegian Wood Murakami scrive: «la morte non è l’opposto della vita, ma una sua parte integrante», e provando a sostituire poche parole (vittoria -> vita, sconfitta -> morte), non credo sia una cosa che differisce molto da quando Insigne dice: «Mi scoccia assai arrivare ad un passo dal successo e poi ritrovarmi senza niente tra le mani, che so un trofeo da alzare al cielo». Una sorta di interiorizzazione della sconfitta, del malessere, appunto.

A questo proposito, può sembrare ancora un caso che le migliori partite di Insigne non coincidano con i successi del Napoli? Può sorprendere che un capitano, mentre la sua squadra pareggia 3-3 in casa del Sassuolo esca dal campo gridando: «Che squadra di merda»? Ovviamente non credo. Il fattore che può dimostrarlo è anche l’ultimo di questa riflessione, e ha a che fare con le lacrime e l’amore. Come tutte le cose, in fondo.

Sul mio essere tifoso del Napoli

La mia squadra del cuore è spesso destinata alla non-vittoria, alla mediocrità, e per questo per me le lacrime di Insigne non hanno un valore superficiale. Ho pianto per la vittoria di Doha, per l’eliminazione dalla Champions con l’Arsenal, per il gol di Diawara contro il Chievo, e se non l’ho fatto per Fiorentina-Napoli è solo perché avevo razionalizzato la sconfitta già il giorno prima durante Inter-Juve. In un pezzo su Insigne dopo la Supercoppa di quest’anno scrissi, e ancora lo penso, che il fatto che io ami calcisticamente Insigne non ha niente a che fare con il posto in cui sono nato (che non è nemmeno Napoli). Il nostro unico trait d’union è la sofferenza reciproca, ovvero la scelta di amare il Napoli.

Nessuno lo ha imposto a me, e posso immaginare che nessuno lo abbia imposto anche a Insigne, che tutto sommato è di Frattamaggiore e poteva ritrovarsi tifoso di qualsiasi altra squadra. Invece, ogni volta che la posta in gioco si alza, è evidente che dall’emotività di Insigne trasudi la passione. L’insofferenza perché dopo 10 anni non ha ancora vinto niente di importante ha il suo peso, certo, ma il suo sopracciglio alzato durante i 90 e più umilianti minuti di Napoli-Verona riguardano anche l’essere tifosi, la paura di fallire.

Per questo, secondo me è lecito chiedersi: le lacrime di Insigne post-Juve, dopo Napoli-Spezia, o anche solo dopo essere stato fischiato dal San Paolo, sono una semplice reazione alle sofferenze di arrivare nel migliore dei casi secondo, oppure segnano le radici di un malessere più profondo?

E noi, come ci siamo abituati a queste sensazioni? O meglio, ci siamo abituati? Il gol di Insigne su punizione all’esordio in Champions contro il Borussia Dortmund è stato un assaggio del suo talento, una sorta di predestinazione ai massimi palcoscenici calcistici, o l’altare sul quale abbiamo sacrificato gran parte delle nostre ambizioni?

via Gfycat

A un certo punto, ci siamo accontentati di Insigne? Ci siamo assuefatti all’idea di avere un capitano tifoso del Napoli?

E ora che il suo contratto scade nel 2022, qual è la migliore scelta per il Napoli? E quella per Insigne?

Le loro strade coincidono?

Comunque, qualche settimana dopo il rigore sbagliato in Supercoppa contro la Juventus, una “delegazione” di ultras aveva incontrato Gattuso e Insigne all’Hotel Britannique, dove il Napoli stava preparando i quarti di finale di Coppa Italia contro lo Spezia. Cercando di rasserenarlo, i tifosi gli avevano detto di essere dalla sua parte: «noi non ci frequentiamo, ma questa è casa tua. Tu sei il re di Napoli», in quella che sembrava più una rassicurazione passeggera e paternalistica che una vera incoronazione. Invece di acconsentire, come ci ha abituati nella sua immagine pubblica, stavolta Insigne ha scelto di rispondere: «Dopo la partita con la Juve mi sono sentito ‘na chiavica, sono stato chiuso in casa tre giorni».

Dopo qualche secondo di silenzio, ha chiosato in napoletano: «Non voglio perdere, je ce tengo troppo a ‘sta maglia».



– Leggi anche: Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (atto I)

– Leggi anche: Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (atto II)

 

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