Home Editoriali Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (atto II)

Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (atto II)


Inizierei la seconda parte di questa riflessione un po’ personale intorno ai 30 anni di Lorenzo Insigne (qui la prima parte) dal primo vero punto di svolta della sua carriera nel Napoli.

Sliding doors

È solo l’estate del 2019, infatti, il periodo in cui sappiamo che Insigne sarebbe potuto andare via. Il Napoli era reduce da una stagione in cui al primo anno Ancelotti aveva portato in dote l’ennesimo secondo posto e un girone di Champions in cui tutti gli sforzi (e le semi-imprese) si erano scontrati con l’eliminazione. Gli azzurri avevano vinto al San Paolo con il Liverpool (gol al 90’ di Insigne) e pareggiato due volte contro il PSG: all’andata era stato Insigne a portare il Napoli in vantaggio al Parc de Princes con un pallonetto ad Areola dopo avere attaccato la profondità alle spalle di Thiago Silva; mentre al ritorno aveva pareggiato ancora lui su rigore. E alla fine eravamo usciti per la solita differenza reti che cinque anni prima aveva condannato anche il Napoli di Benitez contro Borussia Dortmund e Arsenal. Insigne aveva chiuso la stagione con 14 gol e 6 assist, e si sarebbe potuta considerare una stagione anche positiva (solo nel 2016/17 aveva segnato di più: 20 gol) se non fosse che da Napoli-Arsenal del 18 aprile, il capitano aveva giocato solo due partite da titolare contro Cagliari e poi Bologna, all’ultima giornata e comunque sostituito. Contro l’Arsenal Ancelotti aveva sostituito Insigne dopo un’ora di gioco, e lui aveva reagito sorridendo ironicamente e indicando all’allenatore i fischi che lo stadio gli aveva riservato. La Gazzetta dello Sport scrisse addirittura che Insigne avrebbe incolpato il suo allenatore di essere la causa di quella contestazione, e se i rumors lasciano il tempo che trovano si può comunque accettare che quelle fossero le prove generali per la tribuna di Genk (ottobre 2019, quando Ancelotti disse che Insigne si era «comportato male in allenamento») e l’ammutinamento del 5 novembre.


Comunque sembra che alla base ci fosse l’insofferenza di Insigne per il ruolo di seconda punta che Ancelotti voleva cucirgli addosso (tanto è vero che: sì, Insigne è rimasto, ma sempre da ala sinistra in un sistema iper-offensivo e sbilanciato che forse, nella sua idea, aveva rinunciato alle sue caratteristiche). In un incontro con i tifosi nel ritiro pre-campionato, il capitano aveva detto di trovarsi meglio in Nazionale perché l’Italia usava un modulo «più congeniale» alle sue caratteristiche.  

Quindi, se Insigne avesse voluto davvero restare da capitano e leader, perché non ha fatto di tutto per adattarsi e uscirne più forte? Insigne è mai uscito dalla sua comfort zone tecnico-emotiva?

Insigne è una persona schiva. È interessante vederlo parlare al canale Youtube della Serie A, mentre racconta che da bambino era costretto ad aiutare la sua famiglia andando a vendere vestiti al mercato di Frattamaggiore per potersi comprare le scarpette e i parastinchi per giocare, e notare come nella sua voce non risalti niente che somigli a una forma di orgoglio, o di “riscatto” (uno dei cliches più usati quando si parla della storia di un napoletano). Quello che Insigne racconta dei suoi «sacrifici» è più profondo e cupo. Dice di aver pensato di smettere con il calcio quando da ragazzino era stato scartato da Inter e Torino a causa della statura, e anzi in qualche modo sembra ancora piccato mentre dice che «al Nord prima funzionava così, preferivano i ragazzini alti, anche se non sapevano palleggiare».

A dire il vero la sua autorevolezza in campo, che lo ha portato con gli anni a diventare l’epicentro tecnico del Napoli, si scontra con questo eccentrico modo di parlare e più complessivamente di esprimersi in pubblico (è stato lui stesso a dire: «Non sono abituato, mi dispiace: il calore della gente è bellissimo ma non ci ho fatto l’abitudine»). Nel 2014 rifiutò di parlare durante la presentazione ufficiale del Napoli in ritiro, acuendo l’imbarazzo del presentatore con un’espressione che tradiva il fastidio. In questo Insigne assomiglia molto a una certa generazione di napoletani, di cui faceva parte anche mio padre, a cui chiedere di esternare le proprie sensazioni significa semplicemente alienarli.

Insigne non è un capopopolo, non è il Masaniello pronto alle rivolte che spesso i napoletani cercano nei loro leader.

A volte sembra che Insigne non parli anche quando potrebbe. È come se quella che prima ho chiamato “insicurezza” sia una compagna di viaggio, per lui: è ciò che tende a reprimerlo e che anzi, lo porta persino a reagire istintivamente, tipo gettando la maglia come se si stesse scrollando di dosso una camicia di forza, nel caso di Napoli-Athletic (anche lì fischiato duramente dai suoi tifosi, mentre la moglie su Instgram scriveva: «A Napoli non lo meritate»). Una sorta di esorcizzazione fisica della paura, della pressione.

La questione emotiva

A inizio gennaio di quest’anno c’era stato anche l’episodio del post-partita di Napoli-Spezia, una delle partite più assurde degli ultimi anni del Napoli, con cui ci siamo allontanati definitivamente da Milan e Inter, mentre sulla panchina di Gattuso allungavano ombre di mediocrità che credevamo battute con la vittoria della Coppa Italia. In quella partita il Napoli aveva tirato 36 volte, battendo il record di xG (4.7) di una squadra che non ha vinto la partita in Serie A. Insigne ha calciato undici volte (u-n-d-i-c-i) verso la porta di Provedel, sbagliato un gol davanti al portiere dopo un minuto di gioco e sfiorato più volte il gol con il suo solito tiro a giro dal vertice sinistro dell’area di rigore: «Dovevo essere io a trascinare i miei compagni ma non ci sono riuscito», ha detto poi a Dazn. Ma se è con l’assunzione delle responsabilità che tendiamo a riconoscere i leader, l’intento di Insigne sembra più auto-punitivo. A un certo punto le sue parole diventano ridicolosamente fataliste: «Non riesco a guardare alla prestazione, penso solo al risultato e dovevo fare di più».

Dall’altro canto, è anche vero che la “timidezza” di Insigne (per quanto possa essere timido uno sportivo di quel livello che, a un finto regista che voleva offrire una parte in un film alla moglie, rispondeva: «tu non sai chi sono io». E anche se alla fine si è rivelato uno scherzo delle Iene, forse ci dice qualcosa su come vorrebbe essere trattato Insigne), è costata cara anche al Napoli. Non a caso uno dei momenti più deludenti della sua carriera – il peggiore? – riguarda il rigore sbagliato in Supercoppa contro la Juventus.

Intendiamoci: non sono nessuno per giudicare l’emotività di Lorenzo Insigne. Al gol di Koulibaly allo Stadium di tre anni fa rimasi sveglio tutta la notte per non perdermi i festeggiamenti di quello che credevo il terzo Scudetto – e che invece si rivelò solo una «ferita difficile da suturare» –, per mesi non ho parlato con nessuno della morte di mio padre, e mi riesce complesso interfacciarmi con il mio mondo emotivo.

Comunque, il Napoli arrivava a quella partita da favorito, ma per l’ennesima volta negli ultimi 10 anni (come nello scontro diretto a dicembre 2017 che probabilmente ci è costato uno scudetto), ha avuto troppo rispetto della Juventus, finendo per fare il suo gioco. Infatti è al termine di una partita tiratissima che arriva il calcio di rigore, a metà tra il conquistato e il rubato da Mertens. Mentre fissava il pallone in attesa del fischio di Valeri, Insigne sembra disorientato, in imbarazzo, nel momento che segna un prima e un dopo: di una partita, dell’adolescenza, di una vita. Se riguardate i momenti prima della rincorsa, è chiaro come Insigne vorrebbe fondersi alle molecole d’aria di un pallone che sa già che non riuscirà a calciare bene. Ha lo sguardo basso, sembra impaurito. E nonostante per il resto della partita sia stato uno dei meno peggio (Juventus-Napoli è stata comunque una partita combattuta, in cui Insigne ha dovuto assorbire spesso le sovrapposizioni di Cuadrado), il giorno dopo Repubblica ha scritto che «la tensione lo ha soffocato» e che puntando su calciatori come Insigne «il Napoli non sarà mai una squadra di trionfi». Secondo Il Corriere dello Sport, invece, quella è stata «la notte peggiore della carriera di Insigne».

Le lacrime di Insigne dopo la Supercoppa con la Juventus, che poi sono le nostre.

Non credo di sbagliare se dico che quella partita ha reso chiara a tutti la differenza di opinioni di una buona fetta di pubblico tra Mertens e Insigne. Il primo è ancora Ciro, l’eroe straniero e magnanimo che ci ha salvati dalle dominazioni, e dai tradimenti, come quello di Higuain. Anche se ha 34 anni e in questa stagione quasi conta più partite saltate che gol fatti, Mertens è intoccabile: è giusto che gli sia stato offerto un contratto a vita (nel 2023 Mertens avrà 36 anni e di questo passo, per il Napoli non sembra essere stato proprio un affare). Su Insigne invece sorgerebbero istintivamente dei dubbi.

È curioso che una città permalosa e isterica – e tendenzialmente pure restia a raccontarsi – come Napoli abbia trovato il proprio nemico in se stessa (o almeno, in uno dei suoi simboli più riconosciuti nel panorama sportivo) invece di idolatrarsi. In una presentazione del libro Maradona è amico mio, Marco Ciriello ha definito questa tendenza come effetto Maradona: «Maradona è uno che sposta, e l’ha fatto anche a Napoli. Dal dopo Maradona i tifosi del Napoli si sono convinti di tifare per il Real Madrid». Ecco, credo che una delle vittime più illustri dell’effetto Maradona sia Insigne. Insomma, anche lui ha acceso il clima quando poteva evitarlo (assumendo Raiola appena dopo il rinnovo nel 2017, oppure rinfacciando di essere rimasto nonostante le critiche), ma Insigne è anche vittima di un modo di intendere il mondo di una parte del pubblico napoletano che non è più reale. E anche ora che ha segnato 19 gol in campionato e trascinato da solo il Napoli verso la Champions, è difficile che tutti i napoletani ne riconoscano il talento.

E se per assurdo Insigne non fosse nato a Napoli, come lo tratteremmo mediaticamente? La Gazzetta dello Sport lo banalizzerebbe così tanto pubblicando articoli in cui lo definisce «scugnizzo» o «capuzziello»?

Quanti tifosi del Napoli pensano di meritare di più che un capitano come Insigne?

– Leggi anche: Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (ultimo atto)

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