Un 10 è per sempre…

Le barriere nella vita limitano gli uomini, la loro capacità di scoprire e conoscere qualcosa di distante dal loro piccolo universo. I preconcetti, l’odio irrazionale e la faida politica-religiosa sono gli orpelli di una desolante società decadente che non rispetta più nulla, nessuno ed è invece bramosa solo di una vana gloria. La gloria, appunto. Cos’è la gloria se non la domanda che maggiormente ha afflitto capi di stato, gerarchi, re, imperatori?

La gloria è l’idea dell’uomo di riuscire a sconfiggere il tempo che passa, che serpeggia sulla nostra pelle cambiandone forma, colore e fattezza. La gloria è la convinzione di unire il terreno al sovrannaturale, creando un ponte tra ciò che si tocca con mano e ciò che, invece, è emozione che si scatena in noi nel silenzio delle parole che non esistono per poterlo raffigurare. La gloria è il premio che ognuno di noi vorrebbe, spererebbe magari in altre forme perché possa dare un senso al proprio passaggio su questa terra. L’idea di essere polvere terrorizza ognuno di noi, ci sveste dai panni dell’arroganza e della superbia e nudi dinanzi alla vita vorremmo, per placare il nostro senso di impotenza, poterle rinfacciare che la nostra polvere sarà ricordata, annusata e conservata eternamente da chi verrà dopo di noi. Nulla di più falso o forse nulla di più vero. La vita e il tempo sono spesso gli alleati delle nostre amarezze, confondono l’umanità illudendola della loro eternità mentre invece, come un soffio, tutto può spegnersi da un momento all’altro e, anche quando il buio dovesse essere lontano, nessuno avrà mai la certezza e convinzione di aver offerto tutto ciò di cui disponeva. L’esistenza è un insieme di azioni, di emozioni e lotta per concludere una giornata e iniziarne un’altra con lo spirito volitivo di chi crede nei sogni pur essendo adulto, confida nei propri desideri e li difende dalla barbaria della cattiveria di chi essendo impotente di realizzare la propria felicità gode nel distruggere quella altrui. Di quella gente, purtroppo, ce n’è in abbondanza. I primi passi ognuno di noi li muove da bambino e già prima di iniziare a camminare già sogniamo dove vorremmo che i nostri piedi ci portassero un domani. E’ la mia storia, la tua che leggi e di tutti. E’ la storia anche di Francesco Totti.

In questi casi si dice e si scrive di campioni del suo calibro si trattino di predestinati. Uomini nati per compiere imprese, scrivere pagine di storie e diventare icone per le generazioni che verranno. Tirare calci ad un pallone è cosa assai semplice da bambini quando il divertimento è l’unico contratto che firmeresti, quando vedi il tuo sogno ancora distante anche solo per potertene spaventare. Ad un tratto, però, quei passi che muovevi da bambino si trasformano, inizi a percorrere le orme di chi è venuto prima di te o di chi vorresti essere. Nel percorso verso la gloria, la fama, un campione incontra infinite maghe Circe pronte ad irretirlo e deviare le sue attenzioni verso il vano, il superfluo sciabordio dei flutti della perdizione. Quando il destino ti premia facendoti dono di quel talento speciale, diverso e quindi unico, il tempo della gioventù dura poco perché chi è più adulto di te ha già bisogno che tu venga a catechizzarlo. Così accadde a Totti che debuttò in Serie A a 16 anni. Da allora, però, non è più uscito dal campo. Il viso giovane segnato ancora dalla “rivalità” familiare con il fratello e le scaramucce d’amore con il padre Enzo, piano piano assunto figurina dopo figurina, anno dopo anno le fattezze di uomo prima, di un gladiatore poi, di un eroe immortale alla fine. La sua carriera è come una notte d’estate: romantica specchiandosi sotto ad uno sciame di stelle e pazza, si anche pazza, nel volersi bagnare a mezzanotte per rendere frizzante l’atmosfera. Francesco, così come lui desidera essere chiamato, è stato un sogno che ha fatto svegliare tutti da un torpore arreso, disincantato di una realtà, anche quella calcistica ormai, schiava degli affari, dei denari capaci di trasformare uomini in giuda senza che nemmeno se ne accorgano. Gli ideali, l’amore per una maglia che tutto era meno che maglia da gioco ma pelle che copriva un cuore gonfio d’amore, lealtà e sportività. Il senso della famiglia, degli affetti, della moglie e dei figli sempre difesi e mai pubblicizzati hanno tracciato i contorni dell’uomo che è Francesco. La capacità di non prendersi mai troppo sul serio, di scherzare anche su ciò che poteva rappresentare un limite: la sua istruzione. Le attività sociali e l’impegno per la comunità, fatti consacrati in anni di vita e anni di carriera. Carriera appunto. La sua, per la Roma e il calcio italiano, è stata come una stella cometa. Ha tracciato un cammino di speranza, senso di appartenenza amore con la a maiuscola. Ha regalato notti speciali ad ogni tifoso di calcio, dello sport. Come tante stelle cadenti le sue gesta hanno illuminato i sogni di molti, di tutti potremmo dire senza peccare di arroganza. I suoi gol, le sue giocate hanno caratterizzato il quarto di secolo più interessante di sempre nel panorama calcistico nostrano. Profeta in patria, nella sua Roma, ed eroe con la maglia azzurra. Ha regalato agli italiani un mondiale, ai romanisti uno scudetto storico. Ha regalato a tutti emozioni impareggiabili, le stesse che sono sempre sgorgate come acqua pura dai suoi occhi. Si, nei suoi occhi era possibile leggere sempre ciò che il suo animo provava e che la sua bocca non confessava, nascondeva. Gli occhi al debutto, quelli al suo primo gol in giallorosso, quelli nel giorno dello scudetto, prima di calciare il rigore con l’Australia e successivamente con la Coppa del Mondo al Circo Massimo, quelli del 4-0 alla Juventus, quelli del ritiro.

Le emozioni non sono mancate nel corso della sua carriera, le emozioni che lo hanno condotto a rifiutare il mondo intero perché il suo cuore si sentiva già ricco sufficientemente del mondo Roma. Le emozioni che ha provato e spremuto sul campo per portare in gloria la sua città, la sua gente e il suo popolo che mai, dico mai ha tradito. Emozioni che fanno piangere, che inteneriscono il cuore perché toccano le corse più profonde dell’amore che non conosce regole, vantaggi ed interessi. Avrebbe potuto vincere tutto, ha preferito regalarsi alla sua gente. L’atto d’amore più forte che un essere umano possa compiere è appunto quello di regalarsi a chi ama, anche con il rischio che torni indietro poco. A Francesco è tornata indietro una corona d’alloro che il tempo, la sua classe, la sua lealtà e la sua gente gli hanno cucito addosso, che anche gli avversari di una vita gli hanno riconosciuto senza barriere di appartenenza. Le emozioni, gli occhi dicevamo. Nel suo giro di campo ciò che ha toccato il cuore di ogni sportivo è stata la sua compostezza, la sua voglia di non lasciarsi andare all’emotività come se ancora, da generale e gladiatore, volesse difendere dall’amarezza tutta quella che gente che piangeva il suo addio già da agosto scorso quando sapevano sarebbe iniziata l’ultima stagione del capitano. L’abbraccio che lo stadio Olimpico gli ha tributato è stato più caldo del sole in estate, tanto caldo da sciogliere anche le riserve di Francesco di controllare se stesso. In quegli occhi fissi verso la curva, in quelle lacrime che bagnavano il viso di quel ragazzino sognante divenuto uomo i ricordi di tutti si sono commossi. Ci siamo fermati insieme a lui e abbiamo pensato a quel gol con l’Olanda su rigore, al suo cucchiaio e alla sua capacità di essere ancora pupone alla soglia dei 40 anni. Abbiamo provato a capire cosa potesse passargli nella testa in quei momenti, in quegli istanti. Non esiste una risposta esatta ma ne abbiamo compreso le tinte malinconiche, tristi e di amarezza di non poter combattere quel tempo, quel tempo che lui “accusa” ad inizio della sua lettere. Quel tempo capace di trasformare in ricordo ogni cosa vissuta con una velocità tale da farti credere di non essere riuscito a godere abbastanza delle gioie ricevute. Quel tempo, però, che non ha cambiato l’uomo che è Francesco, capace di scherzare nonostante tutto durante la lettura della lettere. Capace di essere semplice in modo così imbarazzante da stupire forse anche chi lo conosce bene. Semplice anche, soprattutto direi, nel confessare il primo ed unico sentimento che affolla la testa di un campione che lascia la sua vita, anche se quella sportiva: la paura.

Finché calpesti l’erba dello stadio, senti il calore del pubblico, lavori ogni giorno per alimentare la tua passione e la voglia di vincere della tua squadra ti senti invincibile. Percepisci che la tua vita ha un senso chiaro, sei testimone di una missione da compiere e ti senti un pò eroe, per te stesso e per gli altri. Quando l’eco di tutti quei rumori che sentivi svaniscono, quando la lampadina si spegne e vince il buio della normalità allora tutto cambia. Non sai più dove finisce il giocatore che sei stato e l’uomo che sei, le tue coordinate sono svanite e sei troppo adulto per permetterti di vagare a vista, senza meta. Ciò che maggiormente mancherà a Francesco è la consapevolezza di fare ciò che meglio riusciva a produrre come persona, di chiudere un capitolo della sua vita molto più importante e profondo di un semplice capitolo. In quell’abbraccio che i propri tifosi gli hanno tributato tutti da casa, metaforicamente e con il cuore in mano, ci siamo gettati addosso a lui per stringerlo forte. I colori, almeno in quel momento, non sono esistiti. Esisteva un uomo che ha servito il gioco del calcio con forza e onore, da uomo di principio senza padroni. Un avversario che ha esaltato in 25 anni ogni sfida contro la Roma, perché una sfida assume valore in virtù dell’avversario e come lui non c’è stato e forse mai ci sarà nessuno.

Non voglio entrare nell’annoso dibattito del ritiro o meno della maglia numero 10, non sarebbe rispettoso parlarne oggi così a breve distanza dal suo addio al calcio. Ciò che inece mette tutti d’accordo che il numero giallorosso sarà, moralmente, sempre suo. Suo come la fascia di capitano che non ha solo indossato, l’ha glorificata bagnandola nel sudore di un uomo che ha difeso da vero imperatore il proprio popolo, sempre e contro ogni avversario. Ringraziare Francesco sarebbe banale, semplicistico, così come ricordarne i numeri da primo della classe assoluto o dire che ci mancherà dalla prossima domenica di campionato che verrà. Francesco non ha mai smesso di giocare e se davvero amiamo questo sport il suo esempio continuerà a scendere in campo, domenica dopo domenica negli anni che verranno, come se mai avesse attaccato gli scarpini al cuore. Il tempo può fermare un uomo, non un’idea. Ciò che noi tutti dobbiamo difendere è la sua idea, preservarla e tramandarla perché non si dimentichi mai il suo impegno. Parlavamo di gloria, soprattutto nella città eterna. Parlavamo di cosa fosse e cosa rappresentasse estendendola all’eternità senza tempo. Non esiste una risposta, non esiste modo di spiegarlo. Possiamo dire che la gloria e l’eternità sono apparse nella voce commossa, rotta dal pianto di Francesco che al suo popolo dice: vi amo! Si è palesata nel momento esatto in cui un calciatore, citando e parafrasando “Il Gliadiatore”, è diventato più potente di una squadra intera, di un presidente comprensiva della sua dirigenza e dell’allenatore.

La gloria è scrivere la storia con la semplicità di un uomo normale. Caro Francesco, tu sei gloria che cammina e per sempre riecheggerà nell’eternità del calcio.

Grazie

 

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