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Nessuno è stato solo come Diego Armando Maradona

«Mio nonno aveva Di Stéfano, mio padre Sívori, a me è toccato Maradona.
In una scala argentina è andata male su base sociale e benissimo nella misura degli idoli. Loro hanno avuto il lavoro garantito e nessun indugio nelle scelte di vita, io il più grande calciatore di tutti i tempi»
Incipit di Maradona è amico mio (Marco Ciriello, 66thand2nd, 2018).

È dal 25 novembre 2020 che si scrive molto di Maradona, dei retroscena sulla sua vita privata, delle sue nefandezze e la sua gloria. Si è scritto della sua tossicodipendenza, dei figli illegittimi che ha disseminato per il mondo e poi abbandonato, si è scritto anche dei problemi con la sua eredità e dei responsabili della sua morte. Quello che invece è stato tralasciato (o almeno, che la narrazione mainstream del fenomeno Maradona non ha ancora intercettato) riguarda il vero lato oscuro dell’esistenza di Maradona in campo e fuori: la solitudine, l’emarginazione, la frustrazione, che poi fanno da contraltare alle gioie che ha provato a dispensare attraverso il pallone. Tutti questi elementi trovano invece ampio spazio in Maradona è amico mio di Marco Ciriello (edito da 66thand2nd, 2018), una biografia spuria del fuoriclasse in cui il genio, la caduta e le rinascite sono solo lo specchio della vera storia maradoniana.

Ciriello interseca infatti la vita e la gloria di Maradona con gli eventi della sua adolescenza fino a creare un vortice a-spaziale e a-temporale in cui la narrazione – divisa in 40 capitoli – arriva ad avvitarsi su sé stessa, ritorna al punto di partenza per riaccelerare, prosegue senza continuità, per guizzi. Allo stesso modo con cui Maradona ha condotto la sua vita: senza logica né razionalità, per istantanee che lo hanno fotografato. Come scrive Ciriello: «Maradona è un prodotto di Vonnegut, è elementare nella sua illogicità». Prendete i due gol con cui sarà ricordato, il gol del secolo e la mano de Dios: entrambi rappresentano un momento di genialità, il puro istinto al servizio di un’intuizione perfetta che nessun altro avrebbe potuto avere; allo stesso tempo, nessuno ricorderà Maradona per gli altri 88 minuti di quell’Inghilterra-Argentina. Semplicemente perché quei due gesti (tecnici, atletici, psicologici) rappresentano perfettamente il suo talento sovversivo tanto quanto le polemiche sulla guerra delle Malvinas.


Eppure, come nel Maraodna di Kapadia, il contesto leggendario del primo e del secondo scudetto, della Coppa UEFA e di Messico ’86 rimane sullo sfondo del bellissimo libro di Ciriello come l’autoritratto invecchiato di un pittore morto solo e in povertà. È più interessante considerare gli effetti che le gesta di Maradona hanno generato nelle altre persone («Ogni napoletano ha il suo dettaglio, inventato o meno non ha importanza, è la goccia nel mare della festa» scrive Ciriello), più che valutarle tecnicamente. Capire i contesti disagiati e tossici in cui Maradona è nato e si è rivelato fenomeno, a partire da Villa Fiorito per arrivare a Barcellona, a Napoli, al mondo intero. Nell’ottica maradoniana tutto è Villa Fiorito: dribblare metà nazionale inglese probabilmente non è stato niente di eccezionale per lui, abituato alle gesta che ha scolpito per sempre nei campetti del barrio. Gesta che non abbiamo potuto vedere, e che non vedremo mai.

5 luglio 1984, il giorno della presentazione di Diego Armando Maradona al San Paolo.

E in un certo senso è proprio da questa subcultura ferocemente, e a tratti, ridicolmente, campanilistica ad aver forgiato lo spirito ribelle del Maradona più maturo. Ovvero quello di Italia ’90 («Vedrete, ora vado lì fuori e divido un paese»), quello delle riunioni con Chavez e il ricovero a Cuba dall’amico Castro per disintossicarsi (per non citare quando si fece fotografare mentre indossava una t-shirt con su scritto «Stop Bush» in cui la ‘s’ era stata sostituita da una svastica): «Maradona è un Lenin allegro e soprattutto cazzaro che, scremando tutta la parte noiosa, arriva al sodo in un solo tocco o in una sola frase, a seconda del campo. Che tiene insieme Joe Strummer e Fidel Castro, gli sceicchi e i po­veri, l’umanità e l’eros, Borges e Boccaccio, in una metamorfosi continua che aveva solo un comune denominatore: la rivolta. Ma­radona è un rivoltoso, che giochi a pallone o no, per questo la sua è una avventura irripetibile».

Come detto, Ciriello interseca sapientemente all’ascesa, alla rivelazione divina del Maradona napoletano e non solo (bellissimo il capitolo sulla finale persa a Italia ’90 e le conseguenti lacrime di Diego) alcuni elementi della sua crescita e storia personale, perché in fondo raccontare Maradona è una sfida impossibile se non si prova a raccontare se stessi, le nostre gioie e i traumi che abbiamo subito e che non siamo riusciti ad affrontare, ma che ci portiamo sotto la pelle, come la solitudine che Maradona si è trascinato da Villa Fiorito con il peso di essere, anzi dover essere, il migliore. Nei ricordi della presentazione di Maradona con il padre morto un anno dopo, o la reazione malinconica dei nonni all’addio di Diego – stavolta definitivo, quello del marzo 1991 poco prima della squalifica – Ciriello traccia una retta alla quale convergono due piani dimensionali differenti. Il risultato è un’alchimia ben riuscita tra il Maradona divino, l’alieno che cambia qualsiasi contesto sportivo e umano che intercetti, e il Maradona intimo: «Me lo ritrovai a distanza di offesa […] e c’era tutto il tempo per provare a dirgli: Diego, la tua vita è stata presentissima nella mia. E mi sarebbe bastato un Lo so. Ma non dissi nulla».

 

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