MAREKIARO: “Il Pocho mi obbligò a farlo, ma poi un ragazzino mi insultò. Scelsi Napoli perché…”

Rieccoci ad analizzare il viaggio del capitano azzurro in questo, ormai consueto, appuntamento settimanale. Lo slovacco, ha deciso di raccontarsi in un’autobiografia edita da Mondadori Electa, contenente un racconto introduttivo dello scrittore Maurizio De Giovanni. E’ proprio con la prima parte di questo testo che abbiamo inaugurato la rubrica. La volta scorsa abbiamo iniziato con l’analisi delle parole direttamente raccontate da Marek Hamsik. Quest’oggi daremo voce a nuove curiosità, riguardanti questa volta il suo stile di vita una volta approdato a Napoli, ed alcuni aneddoti con tifosi e il Pocho.

Scelsi il Napoli perché la società mi aveva cercato con insistenza quando avevo appena vent’anni. Non mi sono mai pentito di questa scelta, neanche quando agli inizi della mia carriera in azzurro, i tifosi contestavano una società poco attiva sul mercato.
Volevo il numero sette per la maglia perché sono nato il giorno 27 ma Lavezzi mi anticipò e decisi di prendere il 17, che porta anche sfiga. Ma io non sono mai stato scaramantico e sono riuscito a far amare la disgrazia anche napoletani, arrivando, ovviamente soltanto in termini di gol segnati, a Diego Armando Maradona.

L’affetto della gente è subito arrivato, questa città è diventata casa mia e non ho mai avuto dubbi nel rifiutare la corte di Juventus e Milan o di altre grandi squadre. A Napoli mi sono realizzato sia dal punto di vista sportivo che umano. Qui ho trovato la serenità.

Quando ho iniziato a guadagnare ho comprato subito una casa per i miei genitori perché volevo vederli tranquilli e ripagarli per tutti gli sforzi che avevano fatto. Tante volte mi hanno chiesto come sono riuscito a rinunciare a certe opportunità economiche vertiginose, ma io sorrido sempre e rispondo sempre allo stesso modo: sono gli altri ad essere costretti fare rinunce.

Io mi sento un ragazzo fortunato e quando posso cerco di aiutare chi ha bisogno. Ho sempre condotto una vita tranquilla e qualcuno dice che io sono nato vecchio, e forse ha ragione. Ma la mia è stata una scelta di vita, perché i miei genitori mi hanno avuto da giovanissimi e non ho mai trascorso una serata senza di loro a casa. Non c’erano soldi per uscire la sera e quindi era normale che qui pochi che avevamo dovessero servire per il nostro futuro. Ho imparato a fare i calcoli del bilancio familiare con un occhio sempre puntato al futuro, ma soprattutto, alla condivisione. Ho vissuto la condizione di ragazzo povero al quale la famiglia ha cercato di non far mancare mai nulla e mi porto sempre dietro il peso di questa responsabilità.

C’è però un solo episodio in cui ho fatto un eccezione e anch’io mi sono lasciato un po’ andare. Era la prima volta per me in una discoteca con i compagni di squadra, e ci sono andato solamente perché Lavezzi aveva insistito così tanto che non volevo più recitare sempre la parte del bravo ragazzo, che anche dopo un trionfo importante torna a casa senza divertirsi. Anche quando arrivai a Brescia i miei compagni mi invitavano sempre ad uscire ma io cercavo una scusa per non farlo, siccome non conoscevo bene la lingua e questo mi creava spesso dei problemi, ma mi salvava per poter restare a casa.

La coppa Italia mancava al Napoli da 17 anni ed in quella partita straordinaria contro la Juventus avevo anche segnato il gol del definitivo 2-0, dopo il quale mi ero inginocchiato, commosso, davanti ai tifosi impazziti. Iniziarono i festeggiamenti con il Pocho che mi tagliò i capelli a zero e poi mi disse: “Stasera non torni a casa!” Festeggiamo insieme tutta la città girando su un autobus scoperto e la serata proseguì in discoteca senza mogli né figli. Per la prima volta bevvi tanto champagne e guardavo la folla attraverso il vetro che ci separava dal resto.
Li Napoli mi apparve diversa, una città piena di vita che ama divertirsi, una città dove il confine tra giusto e sbagliato è spesso molto sottile, dov’è facile cadere nelle tentazioni ed è altrettanto semplice pagarne le conseguenze. Una città che quando c’è da festeggiare non bado a spese. Ma io non sono così, non amo gli eccessi e soprattutto non mi piace essere al centro dell’attenzione. Il giorno dopo eravamo su tutti giornali, fotografati con chiunque.

Devo ammettere che non ho mai capito le foto a tutti costi, i bambini che ti saltano addosso per un autografo e poi non sopporto chi ti obbliga anche soltanto ad non sorriso per una fotografia, a volte con arroganza. Spesso mi sono sentito dare del maleducato ma il fatto è che Napoli, con il suo affetto, è meravigliosa ma se non si pongono limiti tende ad invadere la tua sfera privata.

Una volta un ragazzino mi affrontò a viso aperto obbligandomi a fare una foto. Io alzai la mano in segno di disturbo, come a dire: adesso non è il momento. E lì mi riempì di insulti.

Invece nel locale della festa mi donai completamente alla gente. Ricorderò sempre quella notte,una parentesi in cui il Marek che c’era sempre stato non c’era più per qualche ora, ed ero diventato l’oggetto del desiderio che tutti potevano ammirare e anche toccare. Ringraziai il Pocho per avermi fatto conoscere una città diversa, ma poi ho subito ristabilito le distanze, come sempre.

Perché il mio compito non è festeggiare ogni partita vinta insieme alla città, ma impegnarmi al massimo insieme ai miei compagni affinché il Napoli regali alla città altri titoli da festeggiare sul serio”.

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