Il Como è figlio del calcio moderno, quello che va a braccetto con la finanza globale.
La ricca proprietà arriva da tutt’altra parte del mondo e l’interesse, più che sportivo, è legato alla crescita dell’asset, alla valorizzazione dell’investimento più che alla tradizione calcistica. Accade così che una piccola ma storica società – fondata nel 1907 e con appena una quindicina di presenze in Serie A in oltre un secolo – si ritrovi a investire oltre cento milioni di euro nell’ultimo mercato, più di quanto speso in tutta la sua storia.
La squadra è giovane, di prospettiva e affidata a un tecnico da grandi palcoscenici.
Peccato (per loro) che non conoscano ancora la via del gol, faticando a segnare persino dal dischetto.
Purtroppo, però, hanno imparato in fretta da Fàbregas i modi per rendersi fastidiosi da affrontare:
falli duri al momento giusto – e ieri sera spesso impuniti –, perdite di tempo esasperanti (inspiegabile l’assenza di un giallo per il loro portiere) e un uso furbo e scorretto delle pause di gioco, con simulazioni eccessive di colpi o contatti.
In un modo o nell’altro, il Como sembra avviato a prendere il posto dell’Atalanta come outsider nella corsa ai piani alti.
Un percorso completamente diverso rispetto al modello Percassi, costruito su settore giovanile, scelte di mercato intelligenti e cessioni remunerative.
Del Como, per ora, non c’è nulla di tutto questo: solo grandi investimenti e ambiziose prospettive.
A meno che un giorno il proprietario, con un semplice clic, non decida di spostare altrove le risorse.






