Stadio Maradona, un vulcano che si sta spegnendo

“Qualche partita importante nella mia carriera l’ho giocata, ma quando sentii quell’urlo fu la prima volta che mi tremarono le gambe! Fu lì che mi resi conto che questa non è solo una squadra per loro, questo è un amore viscerale, come quello che c’è tra una madre ed un figlio! Fu l’unica volta che dopo aver perso rimasi in campo per godermi lo spettacolo!”.

Parole di Yaya Touré, ex centrocampista di Barcellona e Manchester City.

Si diceva questo del nostro stadio, del nostro tifo, di noi.
Non abbiamo mai avuto una storia gloriosa ma c’erano due elementi fondamentali che nel mondo del pallone rendevano distinguibile Napoli da tutto il resto: Maradona e il calore dei tifosi azzurri.

E se purtroppo non ho avuto la fortuna di veder giocare il primo, ho potuto vedere con i miei occhi quello che succede quando il giocatore numero dodici scende in campo.
Perché non mi si venga a dire che quelli sui gradoni non incidono sul risultato. Volete forse farmi credere, tanto per fare qualche esempio, che il Napoli di Mazzarri avrebbe prodotto gli stessi risultati anche senza l’apporto del catino di Fuorigrotta? O che German Denis avrebbe segnato il 2-2 col Milan? O Amadou Diawara il 2-1 col Chievo? E mi fermo qui perché potrei risultare noioso.

Per anni ho guardato a testa alta chi all’appartenenza mi rispondeva con il palmarès: “Elencami pure tutti i tuoi trofei, non avrai mai una tifoseria come la mia”.
Andare allo stadio era una gioia impareggiabile: anche nei distinti da piccolino, avevo gli occhi fissi sulle due Curve, sognando un giorno di entrare lì e contribuire con il mio sostegno. Non c’era (e non c’è) niente di più bello che sentirsi parte di qualcosa.

Sono cresciuto con un tifo incessante, con ruggiti assordanti nei momenti di difficoltà, con la coreografia del Vesuvio infuocato e lo striscione “TERRA MIA!”. Dio che emozione se ci ripenso…

Sembrano passati secoli da tutto questo, ed è tremendamente frustrante, soprattutto quest’anno.

In una stagione che potrebbe portarci a ciò che aspettiamo da 33 anni, a Napoli non è più permesso tifare, spingere la propria squadra alla conquista del grande sogno.
Vietato introdurre striscioni, tamburi, megafoni e bandiere, probabilmente una sorta di punizione per gli scontri dell’8 gennaio in autostrada, tra ultras di Roma e Napoli.
Se queste misure fossero adottate anche allo Stadio Olimpico, allora ci sarebbe solo da prenderne atto. La realtà, però, è ben diversa: a Roma è tutto regolare (al di là del divieto delle trasferte, imposto ad entrambe le tifoserie per due mesi).

Dunque, è facile immaginare che la questione parta da molto lontano.

Nel 2019, infatti, con la ristrutturazione dell’allora stadio San Paolo, furono installate telecamere a riconoscimento facciale di ultima generazione. E, poco tempo dopo, iniziarono ad arrivare multe salate ai supporter partenopei, “colpevoli” di aver scelto un posto diverso da quello indicato sul biglietto, determinando una violazione del regolamento d’uso dell’impianto. Questo prevedeva (e prevede) anche il divieto di introdurre torce e fumogeni, fino ad arrivare alle bandiere se sprovviste di autorizzazione della società
Tra le sanzioni, non solo multe ma anche Daspo.

Ad oggi, di multe per un cambio di posto fortunatamente non se ne vedono più. Ma da quel momento sono sempre più i tifosi che entrano in Curva col biglietto alla mano e si dirigono al loro posto assegnato, facendo alzare chi magari lo aveva occupato per primo.

A questo proposito, una riflessione va fatta: la Curva è da sempre il “settore popolare“, il cuore del tifo, un luogo di aggregazione e di svago. Ed è assurdo pensare che un padre possa rischiare di non vedere la partita accanto al figlio solo perché non ha trovato due posti tra loro vicini. È assurdo pensare che due amici debbano vedere la partita separati solo perché c’è qualcuno che vuole quel determinato sediolino perché così c’è scritto sul tagliando.
Ed è ridicolo credere che in Curva si possa tifare al meglio rispettando i posti. Chi vuole sostenere, ha bisogno di compattarsi al centro del settore per una semplice questione di risonanza acustica.

Non si dica che che le nuove generazioni si stanno allontanando dal calcio perché si annoiano a vedere una partita per 90 minuti.
È molto irritante ascoltare un’affermazione del genere: la colpa non è certo la loro.
Lasciando stare la politica dei prezzi (che pure incide), vorrei porre una domanda, sperando che arrivi a chi ha poteri decisionali: secondo voi, un’atmosfera come quella di venerdì sera contro la Lazio, potrebbe mai invogliare un ragazzino a venire allo stadio o semplicemente a seguire la partita in TV?

I bambini, mano nella mano con i genitori, non possono portare una piccola bandiera azzurra perché, essendoci l’asta, la potrebbero usare come strumento di offesa. Per quale motivo dovrebbero entrare in un luogo con un clima funereo, dove oltre al silenzio non c’era nemmeno colore?

Con quale spirito dovrebbero arrivare, sapendo che poche settimane fa un gruppo di steward ha travolto un giovane solo perché voleva portare a casa un pallone da gioco capitato nel suo settore?
Doveva restituirlo, sì ma perché trattarlo come un criminale? E soprattutto, era necessario infliggergli il daspo?

Nel frattempo, mentre ai napoletani è riservato questo trattamento e mentre il Diego Armando Maradona viene privato del suo motore, nel settore ospiti è tutta un’altra storia.
I laziali hanno portato con sé bandiere, striscioni, fumogeni e persino petardi e bombe carta. Una di queste è stata lanciata in Curva A e ha colpito un giovanissimo, trasportato d’urgenza in ospedale.

È normale questo?

Perché, tra tutte le problematiche che può avere questa città, le attenzioni si concentrano solo sullo stadio e soprattutto solo su una tifoseria?

Si provi a dare la possibilità alle nuove generazioni di cantare, saltare al ritmo dei tamburi, partecipare alle coreografie, sventolare bandiere.
Stimolate le emozioni positive dei ragazzi e vedrete come ameranno questo sport sin da subito.

Per fare questo, però, non basta il tifo spontaneo e scoordinato. non trascina, non regge, perché non ha gli strumenti per farlo. C’è bisogno del tifo organizzato, l’unico mezzo per creare quell’eruzione d’amore lunga novanta minuti. Ed è questa a determinare quel decisivo impatto uditivo e visivo che ti fa innamorare.

Se invece la strada che si vuole intraprendere è l’eliminazione del movimento ultras, sul modello inglese, lo si faccia ovunque senza figli e figliastri.
Ma si sappia anche che, al di là degli scontri che avvengono all’esterno, è uno dei pochi elementi a garantire ancora un minimo di attrattività al calcio italiano.

Perché se in Inghilterra ci sono stadi silenti ma moderni, qui ci sarebbero stadi silenti e fatiscenti.

Fateci tifare.

Articolo precedenteCampionato mediocre? No, l’altra Italia è mediocre
Articolo successivoOsimhen: Kvara può vincere il pallone d’oro! Premier? Dico questo”