Pandev eterno

Nel secondo episodio della prima stagione di Mr Robot, c’è una scena in cui il protagonista – Elliot Alderson, un programmatore sociopatico –, riflette sul rapporto tra noi stessi e le scelte che facciamo, e si chiede: “Come sappiamo di poter scegliere? Di non star semplicemente facendo il meglio di quello che ci si presenta davanti e basta? Provando sempre a scegliere tra due opzioni. Come i due dipinti in sala d’attesa. Oppure… Coca-cola e Pepsi. E’ tutta una massa indistinta, solo un po’ sfocata”.

Sono domande che hanno a che fare con la prospettiva da cui vediamo le cose. La velocità con cui le finiamo. E se alle “cose” – un sostantivo quanto mai generico e approssimativo – sostituiamo “gli atleti”, o meglio, le figure degli atleti per come le interpretiamo, il risultato resta lo stesso. Sono fenomeni istantanei, passeggeri; che non sembrano appartenere alla nostra stessa specie. Tant’è che non sappiamo come reagire quando uno di quelli che abbiamo etichettato come «finito», è ancora capace di gesta incredibili. Il nostro cervello semplicemente non lo accetta, entra in un cortocircuito difficile da risolvere. È un bug.

O meglio, è l’effetto alone: la nostra percezione è influenzata dai tratti estetici. Per questo, risulta molto difficile pensare che un calciatore 37enne piuttosto tozzo e stempiato, dall’andatura gobba e lenta, possa trascinare la sua nazionale al primo europeo della sua storia. Anche se è Goran Pandev, e ha vinto tutti i titoli possibili in carriera (gli mancherebbe l’Europa League), ce ne siamo dimenticati. Lo abbiamo gettato nell’oblio delle cose consumate.

Pandemonio

Sì, ieri Pandev ha portato la Macedonia del Nord per la prima volta agli Europei, ma non solo. Ha ricordato a tutti – anche se ormai sarebbe superfluo – che nonostante di lui non si parli da anni, è ancora un calciatore decisivo ed elegante. Nell’ultima stagione in Serie A, non è un caso, ha eguagliato il suo record di gol: 9. E questo, paradossalmente, si allinea bene con il resto della sua carriera.

Uno dei ricordi più belli che conservo di Goran Pandev con la maglia del Napoli è indubbiamente la doppietta alla Juventus. Era il 2011; seguivo il calcio da così poco da non riuscire a parlare di altro, o meglio: da riuscire a ricollegare tutto a un prato verde con un paio di porte alle estremità. Nonostante questo, tranne l’etichetta di «Pandemonio» stampata da Raffaele Auriemma sulle sue spalle, della sua importanza all’interno di quel Napoli ricordo ben poco.


Forse è questo che rende il primo gol del 29 novembre ’11 contro la Juve indimenticabile agli occhi del me di quasi dieci anni fa: la sorpresa davanti alla grandezza di uno dei giocatori meno pubblicizzati della Serie A. In quel gol, l’intelligenza con cui Pandev riesce a smarcarsi da Chiellini – uno dei marcatori più bravi in Italia – si unisce alla genialità innata, grazie alla quale prima palleggia con la coscia e poi si gira fulmineo, e trafigge Buffon sul suo palo prendendolo in controtempo. Pandev ha davvero scatenato il Pandemonio, quando ha voluto.

Quanto tempo

«Forse Pandev è nato vecchio. Sono anni che lo diamo per spacciato, anni che percorre con aristocratica discrezione il suo viale del tramonto» ha scritto oggi Enrico Sisti su Repubblica. Non ha tutti i torti: in tutte le giocate di almeno cinque degli ultimi anni di Pandev, non c’è mai stata brillantezza o vivacità. Il suo corpo non gli permette più di partire dall’esterno per convergere e calciare – e far cantare – il suo sinistro, come ha fatto nell’Inter di Mourinho, con cui ha vinto il Triplete. Ha dovuto cambiare gioco.

Anche i suoi goal recenti lo dimostrano: nel pallonetto da quaranta metri segnato al Lecce nello scorso campionato, c’è tutto il Pandev moderno. Appena Gabriel sbaglia il rinvio in uscita su Pinamonti, tutti i muscoli di Pandev sono improntati ad agganciare il pallone e consolidare il possesso. Poi, appena la sfera schizza sul prato, il macedone la colpisce di collo. Erano ancora tempi in cui le persone tifavano e guardavano le partite allo stadio, eppure il rumore del colpo che Pandev infligge al pallone è nitido, quasi sordo. Si distingue dalle urla degli spettatori; ma è essenziale.


Insomma, Pandev ha dovuto riadattarsi a un gioco molto diverso da quello in cui era sbocciato. Nell’azione del gol decisivo di ieri, la grande conduzione di Elmas la dice lunga su quanto ormai il numero 27 del Genoa sia al tramonto. Sia per questioni anagrafiche (Elmas è un ’99, un anno dopo Pandev sarebbe arrivato a giocare in Italia, all’Inter), sia per le proprie caratteristiche. Pandev non è mai stato un talento nelle conduzioni o negli inserimenti, ma ha sempre brillato come cuore pulsante della squadra. Da seconda punta tecnica, capace di impostare l’azione offensiva e concretizzarla. Uno dei ruoli che più si stanno estinguendo nel calcio cinetico e verticale degli ultimi anni.

L’ultima parte della carriera di Pandev – che potrebbe terminare alla fine di questa stagione – racconta di lui così poco da far trasparire tutto. È il ritratto di un calciatore non al passo con il tempo, schivo e per niente adatto al ruolo di atleta-immagine che la società gli richiede. Forse perché neanche Pandev, a differenza di auto-motivatori nati come Ibrahimovic, ha capito di essere stato uno dei giocatori tecnicamente più fini della sua generazione. È per questo che, a volte, nonostante la sua grandezza, ci dimentichiamo di Goran Pandev.

 

Articolo precedenteIl Mattino – Grave perdita per le casse del Napoli
Articolo successivoDel Genio: “De Laurentiis ha commesso un errore ingenuo con Agnelli”