Roberto Mancini, era una cosa personale

Wembley, 20 maggio 1992.

Quale palcoscenico calcistico è meglio di una finale di Champions League? Probabilmente nessuno, se si escludono quelli con le Nazionali. E questo vale ancora di più per Roberto Mancini, che di sacrificarsi per la Nazionale già non ne può più. A 27 anni, nel suo prime psico-fisico gli sono stati già negati due Mondiali per dissidi con l’allenatore. Forse è il momento di concentrarsi su sé stessi, sul proprio club. Ché la Nazionale non è per solisti.

E per affrontare al meglio quella che ancora si chiamava Coppa Campioni, come può farlo Mancini se non in coppia con il migliore attaccante italiano del momento? La storia di Roberto Mancini e Gianluca Vialli è già intrecciata, e lo sarà comunque, a prescindere dalla finale contro il Barcellona. Dal 1984 al 1992, la coppia Vialli-Mancini mette a segno 232 gol. Vengono subito soprannominati dalla stampa dell’epoca I gemelli del gol, quasi a riconoscerne la dipendenza calcistica, affettiva, inter-personale. Non c’è un Vialli felice (calcisticamente) senza Mancini, né il contrario. Anzi è probabilmente dall’incontro con Vialli che Mancini capisce di aver trovato qualcuno di simile a lui al di fuori di sé stesso, e che andare in guerra in due è sempre meglio che in uno.


Poi, per la cronaca: a Wembley irruppe Rambo Koeman, che con un gol su punizione quella notte cambiò il destino del Barcellona, da club perdente e provinciale a massima espressione del calcio mondiale. Ancora oggi, se intendiamo il Barça come uno stile è per merito di quel tiro potentissimo, ma anche di una pessima partita di Vialli e Mancini, che al fischio finale non provò nemmeno a trattenere la disperazione. Vale davvero la pena a vivere e soffrire, per serate così distruttive? Se la Nazionale è un incubo, può diventarlo anche la propria squadra di club? Del resto, è difficile che il calcio dia seconde opportunità.

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Coverciano, 15 maggio 2018.

«Sentivo il bisogno di fare qualcosa per questa Nazionale», dice Roberto Mancini quando gli chiedono perché ha accettato il ruolo di CT. È il giorno della sua presentazione, ma sembra qualcosa di più vicino a un funerale. L’Italia è fuori dal Mondiale, il suo nucleo storico è stato fatto a pezzi dagli infortuni e dal tempo che scorre (Buffon, Barzagli, Chiellini, De Rossi), e il ricambio generazionale è ancora inattuabile. Probabilmente solo un folle avrebbe potuto lasciare uno stipendio pluri-milionario e una vita da Re allo Zenit per riprendere una banda di scappati di casa (a partire dal mondo della politica calcistica) allo sbando e senza uno straccio di idea di futuro.


La follia, appunto. Quella stessa follia di cui Mancini è sempre stato accusato da calciatore nel suo rapporto con la Nazionale. È stato uno dei migliori talenti della sua generazione – a 16 anni giocava già titolare in Serie A –, un attaccante creativo e lucido con caratteristiche peculiari; ma non ha mai giocato un Mondiale, pur sfiorandone quattro, sempre per motivi comportamentali. Persino Bearzot scrisse nella sua autobiografia che Mancini «se n’era fregato non tanto di me come persona quanto della responsabilità che portavo» in riferimento al fatto che durante un ritiro dell’Italia a New York nel 1984 Mancini aveva disertato preferendo farsi un giro a Manhattan.

«Non è mai stato un cuor di leone» dirà Mancini riferito invece riferito ad Azeglio Vicini, altro CT con cui ha avuto un rapporto con più ombre che luci, soprattutto a causa di Italia ’90. Ma ora che ha assaporato le sconfitte brucianti, che la sua carriera lo ha riportato negli stessi corridoi in cui vent’anni prima non era stato capito, è pronto a realizzare l’irripetibile. Al suo fianco non può esserci da subito («non ho avuto il coraggio di chiederglielo, ho rispettato il suo silenzio» dirà Mancini mentre la malattia di Vialli è diventata un argomento sottinteso per tutti), ma si unirà in un secondo momento: come capo delegazione, al suo fianco, c’è ancora Gianluca Vialli.

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Wembley, 11 luglio 2021.

Poco dopo essere stato assalito da Oriali, Lombardo e tutto lo staff tecnico della Nazionale, Roberto Mancini cammina un po’ confusamente per il campo. Non riesce a crederci neanche lui. Non riesce a razionalizzare il fatto che in tre anni – con in mezzo una pandemia che gli ha tolto altri mesi di lavoro e di selezione, e l’infortunio di Zaniolo che ci ha privato del migliore talento che avevamoha riportato l’Italia a vincere un trofeo dopo 15 anni (e un Europeo dopo 53 anni) rompendo con la tradizione, inaugurando un progetto basato sulla tecnica, il divertimento e l’efficacia attraverso il gioco: qualcosa che prima di lui sarebbe stato impossibile. È difficile immaginare anche che non abbia ripensato al momento in cui ha deciso di accettare il ruolo di CT, e al fatto che dopo ieri notte ci sarà un PRIMA di Mancini e un DOPO Mancini nella storia della Nazionale. O magari ha pensato solo a quello che il calcio gli aveva tolto trent’anni prima proprio in quello stadio. Poi, con gli occhi già rossi e lucidi rigati dalla commozione, quando si è sentito chiamare da Vialli e ha smesso di vagare un po’ convulsamente, si è girato, e lo ha abbracciato.


Anche se è durato solo alcune decine di secondi, è un gesto riconsegnato all’eternità. L’abbraccio di Vialli e Mancini è l’irripetibile, il segno di quest’Europeo che ci porteremo dentro per sempre, come il rigore di Grosso o l’urlo folle di Tardelli, è un momento che ci riguarda da vicini forse anche più della partita a carte tra Pertini e Bearzot o della statua di Balotelli, perché ha a che fare con l’amicizia, con l’amore reciproco. Come ne L’abbraccio di Klimt (che non a caso fa parte di una serie di dipinti che si intitola L’albero della vita), il senso dell’armonia tra i corpi di Vialli e Mancini lascia subito il posto all’abbandono dell’uno verso l’altro. La cornice aurea è qui il senso del dolore reciproco superato, la sfida della morte come compagna di vita, oltreché la rivincita della Coppa Campioni presa con gli interessi a Wembley dopo 30 anni. Il momento in cui qualsiasi tifoso italiano avrà pensato che sì, forse vale la pena a vivere e soffrire se una notte come questa capita ogni 53 anni; in cui Mancini avrà pensato a chi lo aveva escluso da quattro Mondiali da calciatore. E anche se non possiamo saperlo è bello pensare che Vialli stesso – che poi è un sinonimo per dire Mancini – si sia abbandonato a un pensiero simile o diverso, ripensando a quando quattro anni fa gli hanno diagnosticato un tumore al pancreas. «Cosa diciamo al dio della morte? Non oggi».

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