Una storia sbagliata

La purezza non esiste, ragazzi, toglietevi ogni illusione, la vita è una merda
Roberto Bolaño, I detective selvaggi

Partirei da una premessa. A nessuno piace vedere Lorenzo Insigne con la maglia del Toronto. Per chiunque segua il calcio e magari è tifoso del Napoli, le ultime settimane sono diventate un continuo trincerarsi di fronte alla figura di Insigne photoshoppata sulla maglia del club canadese. Sono fotografie kitsch, innaturali, che non sembrano provenire dalla stessa realtà che viviamo ogni giorno.

Di sicuro non da quella realtà in cui Insigne è il calciatore più tecnico del Napoli da quasi dieci anni. Dieci anni di vittorie (poche) e delusioni (moltissime), in cui il suo talento non solo è stato messo in discussione da quella stessa frangia di tifosi che ora ne grida il tradimento, ma a volte è stato persino disconosciuto. Proprio un anno fa, una delegazione ultras disse a Insigne fuori l’Hotel Britannique: «Tu sei il re di Napoli, questa è casa tua». Trecentosessantacinque giorni dopo, il suono di quelle parole è vuoto, di un vuoto sordo e incolmabile. Lorenzo Insigne lascerà Napoli perché non è mai stato un’icona, una figura istituzionale. Calcisticamente Napoli non è stata casa sua.


Alla fine della scorsa stagione, in questo pezzo, mi chiesi:

“A un certo punto, ci siamo accontentati di Insigne? Ci siamo assuefatti all’idea di avere un capitano tifoso del Napoli?

E ora che il suo contratto scade nel 2022, qual è la migliore scelta per il Napoli? E quella per Insigne?

Le loro strade coincidono?”.

In un certo senso, la storia di Lorenzo Insigne con la maglia del Napoli non è paragonabile a quelle di altri uomini-bandiera (ieri Il Corriere dello Sport citava le differenze con Totti alla Roma). Il punto è che Insigne assomiglia di più al protagonista di Taxi Driver, Travis Bickle, un uomo che cerca disperatamente l’amore proprio nel luogo in cui è condannato all’infelicità e all’alienazione (Napoli per Insigne, New York nel caso di Travis). È stato un giovane ribelle, quando buttava via la maglietta a ogni sostituzione.

È stato un capitano maturo e coscienzioso, come quando ha guidato fuori dalla crisi il Napoli della parentesi Gattuso-Ancelotti.

Ma nel momento in cui Napoli, e quindi il Napoli, aveva bisogno del suo contributo per uscire fuori dalla mediocrità della mancanza di vittorie importanti, Lorenzo Insigne non è riuscito a superarsi. Non è mai diventato un campione decisivo in una città che non lo ha mai amato come avrebbe meritato. E così diventa lecito domandarsi: è stato Insigne a frenare l’ascesa del Napoli, o è stato il Napoli a non permettere a Insigne di essere considerato univocamente il più forte calciatore italiano della sua epoca?


Così, se da un lato il Napoli, soprattutto nella figura di De Laurentiis, si porterà dietro lo scotto di non aver rinunciato alla politica di austerity neanche per il suo capitano, il suo simbolo oltre che cuore pulsante della squadra, dall’altro è difficile immaginare Lorenzo Insigne come il vincitore di questa guerra fredda. Ha strappato un contratto ricchissimo e finirà la sua carriera, coronata in estate con la vittoria del Campionato Europeo con l’Italia, senza le pressioni soverchianti a cui si era abituato negli ultimi dieci anni.

Eppure il fatto che non porti via con sé uno Scudetto o una vera impresa da leader della sua squadra del cuore ne ridimensiona le prospettive. In futuro si dirà che Insigne ha vinto un Europeo, o che in dieci anni è riuscito a vincere solo un Europeo? Insomma, ora che il passaggio al Toronto è cosa fatta, prende sempre più piede la sensazione che Insigne e il Napoli si siano condannati reciprocamente a un’inscindibile incompiutezza. In fondo, Napoli e Insigne non sono poi così diversi.

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