Luciano Spalletti, l’innovatore

Sono esattamente ventiquattro mesi che Luciano Spalletti non sente il profumo dell’erba di un campo da calcio, non si siede più in panchina. Non fa parlare di sé attraverso conferenze stampa filosofeggianti o scelte di gestione dello spogliatoio simil-totalitarie. Dopo due anni, lo abbiamo ritrovato lì. Come se non fosse cambiato granché nel mondo, o in Italia, né dal punto di vista calcistico né sociale. Forse perché Spalletti rientra nella stretta cerchia di quegli allenatori che sentiamo “vicini” in qualche modo, se non altro perché danno la sensazione di allenare in Serie A da sempre.

In ogni caso, ancora una squadra di alto livello come il Napoli ha deciso di puntare su di lui, sulla sua esperienza nel gestire situazioni ambientali complesse e sulla sua sagacia tattica. Anche se da due anni non si fa che parlare delle querelle con Totti e Icardi, in realtà Luciano Spalletti è stato un profondo innovatore del nostro calcio (per i tifosi del suo Empoli di fine anni ’90 addirittura un rivoluzionario), al di là del personaggio.

Spalletti vs Totti?

La prima immagine che associamo alla figura di Spalletti riguarda sicuramente la Roma, ed è solo per questioni anagrafiche se vi viene in mente la prima o la seconda Roma spallettiana. Per quanto mi riguarda, prima di andare a riguardarla, della prima Roma di Spalletti (2006 –> 2009) ricordavo ben poco: la trasformazione di Totti in falso nove, le dimissioni di Spalletti alla seconda giornata del campionato 2009/10 e l’arrivo di Ranieri e uno scudetto perso alle ultime giornate. In realtà quella Roma era molto più complessa del famigerato “Palla a Totti e s’abbracciamo”. E se negli ultimi anni la riconoscenza nei confronti di Spalletti è stata pressoché assente, è anche vero che è stato lui ad allungare di molto la carriera di uno dei maggiori talenti della storia del calcio italiano.

Totti ha infatti potuto giocare titolare nella Roma fino a 38 anni anche grazie al lavoro di Spalletti. Spostato nel ruolo di “falso nove”, la visione di gioco periferica e assoluta di Totti si è persino ampliata, illuminando zone nascoste del campo, in un contesto tattico in cui quando lui scendeva a prendere palla a ridosso della metà campo, le due ali e il trequartista dietro di lui tagliavano verso la profondità. Anche questo è uno dei cambiamenti di cui Spalletti è il principale artefice: ha portato il 4-2-3-1 in Italia, lo ha rifinito e adattato sulle caratteristiche dei suoi giocatori, portando la Roma a giocare un calcio godibile ed efficace (l’ultimo trofeo della Roma è proprio dell’Era Spalletti: la Coppa Italia del 2008, preceduta da un’altra Coppa Italia nel 2007 e una Supercoppa Italiana, oltre a tre secondi posti).

Il movimento da “falso nueve” di Totti, con Mancini e Faty che attaccano la profondità alle sue spalle.

In effetti la prima Roma di Spalletti è stata una squadra d’avanguardia, al cui interno è possibile trovare molti indirizzi tattici che ci portiamo dietro ancora oggi. Innanzitutto la fluidità delle posizioni e la costruzione dell’azione fin dalla difesa: in fase di palleggio non era raro vedere la Roma sviluppare con tre difensori (un terzino, spesso Panucci, stringeva mentre l’altro saliva) più Pizarro e De Rossi, lasciando così un’occupazione liquida degli spazi offensivi, con la consacrazione di Perrotta inventato trequartista alle spalle di Totti, con il dribblomane Mancini a sinistra e Taddei a dare equilibrio sulla destra. Il tutto, però, avvalorato da una disciplina tattica rigidissima, quasi maniacale in senso negativo; fu lo stesso Spalletti a dire in un’intervista a Gianni Mura che «l’anarchia era che ogni tanto mi veniva di fare un numero, un’azione individuale per dimostrare qualcosa a me stesso più che agli altri. Quello che adesso non sopporto dai miei giocatori, ogni tanto lo facevo».

L’arte della duttilità

L’altra caratteristica che Spalletti ha mostrato, soprattutto con la sua seconda Roma, è la capacità di adattamento a contesti tattici diversi da quelli che aveva contribuito lui stesso a introdurre una decina di anni prima. Ovvero: se il calcio si è evoluto in fretta negli ultimi 15 anni, il nuovo allenatore del Napoli non è mai rimasto a guardare. Ne è un esempio la svolta tattica data alla Roma a pochi giorni dal suo ritorno nel gennaio 2016. In quel momento Edin Dzeko viveva il peggiore momento psico-fisico della sua carriera, e Spalletti decise di acquistare Perotti dal Genoa per inventarlo falso nove, sopperendo così all’assenza di peso davanti con i tagli di El Shaarawy e Salah, e con gli inserimenti di Nainggolan, anche lui (come Perrotta) trasformato da mediano in trequartista.

El Shaarawy e Salah occupano l’ampiezza, mentre Nainggolan, Pjanic e Strootman si dividono i mezzi spazi e la profondità.

Quella dei falsi trequartisti è una trama di gioco che in effetti si ripete spesso nella carriera di Spalletti. La scelta di una mezza punta di sacrificio, abile negli inserimenti tanto quanto nel pressing, e poco creativa, è l’esaltazione della disciplina e del rigore tattico delle sue squadre: «Mi regalassero un fantasista, di quelli che una volta ti fanno vincere e tre perdere, non lo vorrei» disse nel 1997 a Gianni Mura.

Ma l’arte dell’adattamento di Spalletti raggiunge il suo culmine nella stagione 2016/17. Dovendo valorizzare Dzeko, il tecnico di Certaldo è costretto ad allungare la squadra, inspessendola a centrocampo dal punto di vista fisico sostituendo Pjanic (andato alla Juve) con il redivivo Strootman, e in generale investendo meno sui principi di gioco del possesso palla insistito, rendendo la Roma una squadra più verticale. A volte persino schierandola con la difesa “a tre e mezzo”, soprattutto nei big match, con Florenzi in un ruolo ibrido a metà tra il terzino e l’esterno di centrocampo.

La difesa a tre della Roma 2016/17, l’unica squadra – tolta la Juventus – a essere arrivata davanti al Napoli di Sarri.

Insomma, il Napoli ha preso un allenatore dallo spessore tecnico-tattico notevole, un avanguardista del calcio italiano esperto, che nei due anni all’Inter è riuscito a riportare i nerazzurri in Champions senza investimenti particolari e con una rosa molto lontana dalle sue idee di gioco. Soprattutto, il Napoli avrà un allenatore rigido tanto nelle idee quanto nella comunicazione e nella gestione dello spogliatoio, che da un paio d’anni sembra il vero limite degli azzurri: «Credo molto nello spogliatoio, alleno come un fratello maggiore che sa di dover passare a sergente di ferro» ha detto Spalletti in un’intervista. Chissà che una personalità del genere – che presenta ovviamente anche lati oscuri: leggasi la vicenda Totti – non possa sposarsi bene con un ambiente angoscioso, ormai tormentato dal lento declino della squadra. È inevitabile avere dei dubbi su un allenatore di 62 anni, fermo da due e che negli ultimi anni di carriera all’Inter non ha avuto materiale per plasmare novità significative. Ma chissà, infine, che non sia proprio una figura come Spalletti a ridarci quella dimensione Champions che abbiamo perso nel triennio Ancelotti-Gattuso. D’altronde, è lui stesso a dire, alla fine della conversazione con Mura: «Io mi ritengo portatore di un valore: la normalità».

 

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