Le macerie tattiche del Napoli di Gattuso

Quasi due anni dopo il suo arrivo, Gennaro Gattuso ha lasciato ufficialmente il Napoli al quinto posto in campionato, fuori dalla Champions per il secondo anno di fila. È sicuramente difficile sorvolare sull’incidenza che tutto questo avrà dal punto di vista psicologico – oltreché naturalmente economico – per tutto l’ambiente azzurro, ma questo forse è il momento giusto per compiere un bilancio sulle macerie tattiche prima che di risultati che Gattuso lascia in eredità.

Non solo il Napoli ha fallito tutti gli obiettivi stagionali (è uscito ai sedicesimi di Europa League con il Granada, in semifinale di Coppa Italia con l’Atalanta, ha perso la Supercoppa Italiana contro la peggiore Juventus degli ultimi dieci anni), ma lo ha fatto reiterando dei problemi irrisolti, sperando fideisticamente che le cose si risolvessero da sole. Insomma, aver giocato i venti minuti finali di stagione senza centrocampisti e con cinque attaccanti è solo la punta dell’iceberg della confusione e dalla tendenza al nervosismo di tutta l’area tecnica.

La rivoluzione pseudo-sarrista (4-3-3)

Durante la conferenza stampa di presentazione, a dicembre 2019, Gattuso disse chiaramente che non avrebbe continuato il progetto tattico di Ancelotti (basato su fluidità posizionale e pressing ultra-offensivo) e che non gli piaceva difendere con due linee da quattro; lasciando quindi intendere che avrebbe rispolverato il 4-3-3 di Sarri. E tralasciando che quel Napoli giocò ancora per un mese e mezzo bloccato psicologicamente per la questione delle multe, i risultati tecnico-tattici di questa pseudo-restaurazione sono evidenti. Quattro sconfitte in cinque partite (unica vittoria a Sassuolo, all’89esimo), difficoltà a segnare (quattro reti in cinque partite), senza contare l’inefficacia di un pressing coordinato male ed eseguito peggio (che portò tra l’altro a subire quasi due gol a partita).

Tutta la difficoltà del Napoli nell’attaccare l’area con il 4-3-3: Milik è isolato contro la difesa della Fiorentina.

In realtà il principale merito che va attribuito a Gattuso è mentale. È riuscito a forgiare un gruppo che sembrava deteriorato dall’ammutinamento, lo ha ricompattato intorno a uno stile di gioco reattivo e bellico (il 4-1-4-1 con cui ha vinto la Coppa Italia), ma non è mai riuscito a fare di più. Da Napoli-Juventus del 26 gennaio 2020, il Napoli non ha compiuto nessun progresso tattico. Ha continuato a essere una squadra poco ambiziosa senza palla (anche ieri contro il Verona il pressing del Napoli è stato imbarazzante), e in fase offensiva più che a un gioco di posizione iper-tecnico, come suggerirebbe il roster degli attaccanti, si è affidato a giocate risolutive in transizione dei suoi giocatori migliori. Semplicemente, se i leader tecnici – Insigne, Zielinski, Mertens, Fabian, ecc. – sono in giornata e riescono ad alzare l’intensità, il Napoli di Gattuso funziona. Altrimenti, c’è il vuoto: nessuna alternativa, nessun piano B per portare la nave in porto.

La svolta Osimhen (4-4-2/4-2-3-1)

Quest’ultima considerazione si adatta bene anche alla stagione terminata ieri. Iniziata con l’arrivo di Osimhen e con il passaggio al 4-2-3-1, doveva essere il punto di inizio di un progetto tattico nuovo e interessante. Invece è finito con il ristagnare nelle poche idee di Gattuso, e spesso confuse. Ma andiamo con ordine. A inizio stagione, il Napoli aveva effettivamente dato l’idea di essere diventato una squadra verticale, nata per giocare su ritmi di gioco europei, e infatti aveva schiantato 4-1 l’Atalanta, 6-0 il Genoa e 2-0 il Parma. Appena è arrivato il doppio impegno settimanale (l’Europa League), è iniziato però il lento declino delle prestazioni, ben prima dei risultati.

Il nuovo 4-2-3-1 ha compensato i limiti del Napoli in fase offensiva.

Contro l’AZ Alkmaar, così come contro il Sassuolo e contro il Milan (e poi contro Verona e Atalanta in Coppa Italia), sono iniziate ad aleggiare due idee nella mente di qualsiasi osservatore. La prima è che appena i migliori giocatori, e soprattutto gli attaccanti, calano di intensità il Napoli semplicemente non sa cosa fare. È emblematico il finale di partita di ieri, che invece di un cambio tattico ha visto gli azzurri finire la partita con 5 attaccanti: sperando, appunto, in una soluzione casuale a un problema continuo. La seconda idea, che è ormai una certezza, è che il Napoli affonda contro le squadre “identitarie”, ovvero quelle formazioni che si basano su principi di gioco riconoscibili e non negoziabili. Su un’idea di gioco, insomma, a prescindere dagli interpreti.

Il Sassuolo coinvolge anche Consigli nella costruzione dal basso, così ha superiorità numerica contro gli attaccanti del Napoli.

Ne è una prova la sconfitta contro il Sassuolo a novembre: nonostante le assenze di Djuricic, Berardi e Caputo, la squadra di De Zerbi non ha mai cambiato stile di gioco (come ha fatto invece il Napoli di Gattuso con gli infortuni di Osimhen prima e Mertens poi), imponendo la costruzione dal basso per eludere il blando pressing azzurro. E se la vittoria è stata casuale, con un gol su rigore e uno al 90′, è vero anche che la superiorità tattica dei neroverdi in fase di possesso e di riconquista è stata imbarazzante.

Incapacità gestionale

Certo, la composizione ibrida della rosa non ha aiutato Gattuso. Trovare una sintesi ad una squadra che ha ancora due anime (quella verticale/diretta di Manolas-Lozano-Osimhen e quella di palleggio Zielinski-Mertens-Insigne) sarebbe stato un capolavoro tecnico e gestionale, e Gattuso ha dimostrato di non esserne ancora all’altezza. È vero che per due mesi ha dovuto fare a meno di Osimhen e Mertens, eppure i problemi del Napoli sono ben più radicati. Hanno a che fare con la costruzione stessa della squadra, e quindi dell’idea di gioco collettiva, che se esiste è comunque molto fragile.

Da questo punto di vista è impossibile non chiamare in causa l’intera area tecnica e societaria: a partire da Giuntoli (per Lobotka-Elmas-Petagna il Napoli ha speso quasi 60 mln, ritrovandosi una panchina troppo poco profonda) fino ad arrivare alle decisioni del presidente stesso. Il pareggio con il Verona – al termine comunque di un girone di ritorno molto positivo, in cui il Napoli ha ritrovato intensità e Osimhen, e quindi risultati – ha acuito un processo in atto dal maggio del 2018. È finito il primo ciclo del Napoli di De Laurentiis, e con esso la magia e l’ambizione del Napoli come Grandeur europea. Ora, è tutto un salto nel buio.

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