Non è solo una questione privata

Dopo aver vinto i quarti di Coppa Italia contro lo Spezia, Gennaro Gattuso si è sfogato duramente ai microfoni della RAI. Con l’emotività di ogni post-partita (sempre acuita dalla retorica sul lavoratore del Sud che «sputa il sangue», che ha «rispetto per la famiglia», ecc.) ha risposto alla domanda del giornalista, che rimbalzava da giorni tra i media, sulle sue possibili dimissioni: «mi dà fastidio che ogni volta mi viene detto che mi devo dimettere. Io non mi dimetto. […] Sto buttando il sangue tutti i giorni con il mio staff. Io sto qua, faccio il mio lavoro, e credo di saperlo fare».

Poi, quasi come se rivolgesse il suo discorso a un padre che non è mai soddisfatto di quello che fa il figlio, ha dichiarato: «mi aspettavo i complimenti per la quarta semifinale in quattro anni che alleno in Serie A». Ovviamente il suo umore era scalfito dall’insistenza con cui negli ultimi giorni il suo lavoro è stato attaccato da quasi tutti, ma lo sfogo di Gattuso non è solo una questione privata, non riguarda solo i – presunti? – conflitti con il Napoli, ma anche la nostra percezione di chi sia realmente Gennaro Gattuso. Di come ne parliamo oggi che è l’allenatore del Napoli e di come lo abbiamo raccontato quando era un calciatore.

Ringhio

All’interno del nostro immaginario collettivo l’unica qualità che associamo a Gattuso è quella della grinta, della determinazione, dell’aggressività attraverso cui tutti – se ce l’ha fatta uno come Gattuso ce la possiamo fare tutti, no? – potrebbero realizzare i propri sogni. Quando lo sentiamo inveire dalla panchina contro Lozano o Mario Rui, lo incastriamo, più o meno inconsciamente, in una caricatura di se stesso, in Ringhio. Se pensiamo a Gattuso in un campo da calcio difficilmente sottolineiamo i tackle perfetti – per il tempismo, non per la veemenza – con cui estirpava il pallone dai piedi degli avversari, o la precisione dei suoi posizionamenti unita all’efficacia del suo pressing; ciò che conta di Gattuso su un prato verde è la sua aggressività, la sua cattiveria.

Gattuso ha fatto a pezzi anche Cristiano Ronaldo.


Per noi Gattuso non è nient’altro che un miracolato, uno di quelli che avremmo potuto essere noi se solo ci fossimo impegnati davvero, uno di quei calciatori di cui su Youtube è più facile trovare i falli brutali o le risse post-partita. Non conta quante Champions League, Mondiali e scudetti ci separino dalla sua figura e dal suo talento, noi siamo come lui. Ovviamente il tutto è rafforzato dal fatto che essere stato un calciatore senza talento ma dal grande cuore, quello che correva per due, che era titolare nel Milan perché l’unico incontrista possibile in una squadra così tecnica, è anche la percezione che Gattuso ha di sé stesso.

Dopo la finale di Coppa Italia vinta a giugno Gattuso disse: «io tante volte mi arrabbio, perché io voglio vedere gente che ci mette passione, perché io l’ho fatto così per tantissimi anni e non ho nessun rancore, nessun rimorso che potevo fare qualcosa di più. Ho fatto di più di quello che potevo fare». Ecco, qui vorrei invertire il discorso: siamo sicuri che Gattuso abbia fatto più di quello che poteva? Non è che abbiamo sottovalutato il talento e l’unicità di un centrocampista difensivo così ordinato?

Gli eroi

La risposta è complessa e personale, e soprattutto riguarda il clima razzista che ancora si instaurava alla fine degli anni novanta (gli anni in cui la Lega Nord era all’acme del proprio potere) intorno a un emigrato calabrese chiamato a giocare a calcio a Milano. Consapevolmente o non, Gattuso è diventato il bulletto che mette le mani al collo di Joe Jordan alla fine di Milan-Tottenham, o quello che sfiora la rissa con Poulsen, e non potrebbe essere altro. «L’umile figlio di emigrati», come lo definì Repubblica, che diventa l’idolo di San Siro grazie al sacrificio, ma che in fondo non ha talento e nemmeno meriterebbe di condividere il campo con Shevchenko, Pirlo, Maldini, Totti o anche Cassano e Kakà. Devo proprio dirvi dove subentra l’ottica anti-meridionalista in un discorso del genere?

«Dite solo cose negative, anche da calciatore ci ho vissuto tantissimi anni e ho vinto tutto quello che c’era da vincere» ha detto ieri Gattuso alla RAI. «Magari farò così anche da allenatore, vedremo». E quando il giornalista (non ne ricordo il nome, ma non farebbe la differenza) gli ha detto che la sua pretesa di complimenti era eccessiva perché «arrivare in semifinale di Coppa Italia non è un grande risultato» (e in fondo che conta se Gattuso ha eliminato due volte l’Inter, una volta il Napoli, una volta la Lazio ai quarti, no?) Gattuso si è chiuso nel silenzio, abbassando la testa e aggrottando la fronte. È stato umiliato ancora una volta, per la tacita premessa che uno come lui non può avere niente da recriminare.

È in un contesto culturale come questo che in Gattuso si è sviluppata una specie di sindrome dell’impostore, che lo obbliga a chiedersi continuamente se si è meritato tutto quello che ha vinto, anche da allenatore. Non gli abbiamo riconosciuto, e continuiamo a negarglielo, lo status di campione perché Gattuso non aderisce agli standard canonici di sportivo di successo o di allenatore sagace. E in più è orgoglioso di essere calabrese. È anche da questo che distinguiamo gli idoli, no? «Gli eroi sono tutti giovani e belli», e Gattuso non lo sarà mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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