Maradona è stato il mio supereroe

Non ho visto Maradona. Se c’era stato un tempo in cui la mia squadra del cuore aveva vinto in Italia e in Europa, l’ho saputo soltanto grazie a mio padre. Dei racconti sul «che vi siete persi» sulle mura del cimitero di Napoli; dello sconosciuto Romano che cambia il destino della città; di Bruscolotti che gli regala la fascia per vincere. Forse proprio perché la figura che ho introiettato di Maradona è indissolubilmente legata a un rapporto così intimo e complesso, in queste ore non riesco a smettere di pensare alla morte, e quindi – in qualche modo – a Maradona e a mio padre. Che cosa avrebbe detto, lui? Si sarebbe lasciato trasportare da qualche sottile lacrima di commozione, come è capitato a me, anche se io Maradona non l’ho visto davvero?

Il primo documentario sportivo che ho visto è stato Amando a Maradona, perché mio padre lo guardava ciclicamente. Maradona è stato, per la mia infanzia, un’eredità. Ma, oltre le narrazioni televisive (molto belli i film di Kapadia e Kusturica a lui dedicati), la cosa che mi ha incantato di più di Maradona in quel documentario è la sua capacità di realizzare l’impossibile. Nessuno ha vinto un Mondiale da solo, tranne Maradona. Nessuno ha segnato un gol dribblando metà squadra avversaria, prima di Maradona. Nessuno ha vinto a Napoli, né prima né dopo Maradona. Per questo, oltre che per qualche sporadico episodio che ho comunque appreso dopo, ho creduto più a Maradona che a Superman.

Il mio vecchio Amando A Maradona.
Gli ultimi

Nel libro Anche le parole sono nomadi, c’è una frase di Fabrizio De André che secondo me rappresenta bene il personaggio di Maradona di fronte alle disuguaglianze e a temi più propriamente sociali, o politici: “Ieri cantavo i vinti, oggi canto i futuri vincitori: i nomadi, le infinite prinçese, chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio. Maradona è stato prima di tutto diverso, un’eccezionalità pura che ha lottato per gli ultimi, per chi non aveva niente, contro chi il potere lo deteneva e ne abusava. Mentre Pelé e Platini entravano nella FIFA, lui la accusava pubblicamente di corruzione (e su Blatter, a distanza di qualche decennio, ha avuto anche ragione).

È un’attitudine – quella di lottare per gli sconfitti – che ha aumentato l’aura del mito intorno alla figura di Maradona. All’inizio degli anni Ottanta Napoli era una città profondamente divisa dalle tensioni sociali, oltre che altrettanto profondamente restia a raccontarsi. Era una città che si vergognava di se stessa, soprattutto nel paragone con le città industrializzate del Nord. Non a caso, una delle canzoni che spopolò nei mesi appena precedenti alla vittoria del primo scudetto recitava: “Maradona mo ca’ staje ‘cca / lievancill’ ‘o scuorno ‘a faccia a sta città”.


Oggi sul Mattino Federico Monga ha scritto che «nessuno come Maradona ha difeso Napoli». In effetti, è anche per questo che Napoli e Maradona continuano a identificarsi a trent’anni di distanza. A Napoli, Diego ha rifinito le sue tendenze populistiche e politiche: è diventato il simbolo del modo di vivere dei napoletani. Del resto, anche presentarsi a una tifoseria che non si conosce dicendo “voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli” risulterebbe fuori luogo per qualsiasi calciatore, tranne che per Maradona.

Non so quanto Maradona abbia cercato di essere Maradona, e quanto lo sia stato semplicemente perché era così. Nelle sue interviste lo schermo trasudava sempre una componente proficua di vanità ed egocentrismo (quanto piaceva a Maradona dire di essere il migliore nella storia?). Nel 2013, a Che tempo che fa, alla domanda di Fazio su chi gli potesse stare appena dietro nella classifica dei migliori calciatori mai nati, Maradona si guardò le spalle e si portò una mano alla testa. Non vedo nessuno. Questo è il paradosso più estremo di Maradona: ha sofferto per tutta la vita il ruolo di mito, di leggenda da emulare. Ma lui stesso era il primo ad alimentarlo.

Maradona, il supereroe

Il gol che mi fa pensare di più alla storia di Maradona non è quello più bello, né quello che vale di più del suo repertorio. Il 21 giugno del 1994 a Boston l’aria è torrida. Sullo sfondo c’è il Campionato del Mondo, ma non interessa a nessuno. Tutti gli occhi dello Gillette Stadium si contendono la vista in anteprima della rinascita di Diego Maradona. Il commentato al gol è di Victor Hugo Morales – «barilete cosimicooo! De qué planeta viniste?» – e devo ammettere che con un’altra voce quel gol non mi farebbe provare la stessa sensazione di inquietudine e ciclicità. 

A guardarlo oggi, sembra impossibile per un calciatore imporre con l’interno del piede una traiettoria così immediata alla palla. Così secca. Ma Maradona è stato il mio supereroe, e in quanto tale mi piace pensare che sia riuscito a imprimere un effetto così perché quello era il suo superpotere. Il gol è solo il primo layer di significato di una rinascita continua, come quella di Diego. E che verrà interrotta qualche giorno dopo dalla FIFA. «Il limone era stato spremuto fino in fondo».


Quando penso a Maradona penso a mio padre. Ai racconti che mi scambiava poco prima dell’ingresso al San Paolo, o degli aneddoti con cui cercava di convincere il me stesso di dieci anni fa, inebriato dal poker di Messi all’Arsenal in Champions League, che no, non c’è nessun paragone tra Maradona e qualsiasi altro calciatore mai nato. La morte di Maradona non è la morte di un tossicodipendente, o di un giocatore di calcio che portava malissimo i suoi (pochi) anni. È la fine di un calcio insieme infantile e principesco: quello che giocavamo per strada, elevato ai massimi tornei globali. Ieri Napoli ha perso l’uomo che l’ha difesa con maggiore forza – come un figlio –, io il supereroe in cui ho creduto di più.

 

 

 

 

 

Articolo precedenteRIFLETTORI PUNTATI – I gol a parametro 0, la Roma si gode il suo exploit…
Articolo successivoMughini smentisce: “Giusto intitolare lo Stadio a Maradona! Con la Gazzetta mi pulisco le scarpe”