EDITORIALE – Le quattro giornate di Napoli: la vittoria della storia!

Le lancette dell’orologio camminano lente, percorrono le arterie delle nostre emozioni e scalano le vette delle aspirazioni più ambiziose. I secondi diventano minuti e i minuti ore, l’attesa cresce e divampa come un incendio indomabile in ogni tifoso del Napoli. Basta chiudere gli occhi per essere lì, il campo verde che brilla come il tappeto rosso degli oscar, le maglie azzurre che squarciano il cielo buio della notte colorando nell’aria la passione e l’adrenalina della riscossa, della lotta dura ed intransigente. Come ogni bel sogno, però, esiste la figura del disturbatore, dell’intruso malefico che serpeggia alla luce del sole mistificando la realtà, oscurando con le proprie tenebre la luce altrui. Esiste, ed esisterà sempre. La storia insegna, macchiavellicamente parlando, che essa è capace di rigenerarsi, reinventarsi in mille modi differenti ma restando cucita, sempre ed indissolubilmente, con l’endocarpo della propria essenza. Non prendiamoci in giro pensando si tratti esclusivamente di calcio, non cadiamo nella rete tesa da chi avrebbe goduria solo nel vederci camminare carponi e di chi, senza nasconderlo più di tanto, sputa in faccia alla storia di questa città offendendone gli abitanti a livello personale e non. La manifestazione sportiva in Italia è stata deturpata, violentata e privata del suo aspetto originario trascendendo in aspetti sociali, oltretutto con dubbio gusto e mancanza di moralità, tramutando una partita in una gazzarra che di calcio, a volte, sa ben poco. Mancano meno di ventiquattro ore all’inizio delle quattro giornate di Napoli eppure, per bocca di molti, lo sport nazionale di infangare e stuprare l’immagine della città ha già mosso i propri tentacoli malefici e mortiferi. Proprio coloro che gridano alla sobrietà, ai modi consoni ed opportuni valutandone i contesti sono i primi che, invece, iniettano veleno, odio e razzismo spacciandosi per saccenti arroganti essendo invece, in realtà, figli non riconosciuti di un burattinaio arrogante, spocchioso e violento. Chi dovrebbe garantire la regolarità, addirittura, preferisce insultare la propria intelligenza piegandosi come servi inanimati dinanzi al potere, offrendo la propria dignità per la consacrazione demoniaca di chi si erge a divinità senza averne titolo, classe ed eleganza. Söze, in fondo, diceva che la beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste. In un contesto simile ogni parola è vana, come il vento accarezza ognuno di noi senza toccare nessuno ma, anzi, diviene un boomerang che colpisce solo chi tenta di ricollocare al giusto posto ogni cosa, professando principi di uguaglianza, liberalità e trasparenza. I paladini dell’ingiustizia si moltiplicano, proliferano come cavallette e come una calamità biblica diffondono nella società il male incurabile, pretendendo ed ottenendo una supremazia dittatoriale offensiva, umiliando il comune senso di decenza. Ogni principio è oscurato, censurato dalla mano invisibile, nemmeno più di tanto, di chi ha l’interesse che il mondo sia una rappresentazione in bianco e nero di ciò che, invece, dovrebbe essere sfavillante e colorato di vita, passione ed armonia gioiosa. Pino Daniele cantava: “‘ncoppa ‘e sorde ‘a gente nun guarda ‘nfaccia a nisciuno”. In tutto questo si articola questo sport che, in fondo, dovrebbe essere la parte più leggera di una vita contaminata da ben altri problemi e difficoltà.

In questi giorni abbiamo sentito in ogni dove ricostruzioni di ciò che avverrà al San Paolo, di come il popolo napoletano accoglierà chi ha venduto la propria bandiera abbracciando altri “valori” e “stili” di vita. Comprendiamo la volontà di fischiare, prendere a pernacchie colui che ha rappresentato in modo schiacciante l’alto tradimento. Comprendiamo coloro che vogliono rivolgere a lui parole poco gentili, chi vorrebbe dedicargli striscioni che lo rappresentino in tutta la sua “magnificenza”. Però, pensandoci bene, non sarebbe giusto. Non sarebbe giusto non tanto in virtù delle sue gesta sportive e del record conseguito solo un anno fa. Non sarebbe giusto perché, almeno noi, dobbiamo smetterla di dare valore a chi valore non ne ha. Anche il più piccolo dei gesti, anche il più insignificante , significherebbe considerare una persona che ha preferito scappare nel buio della notte anziché affrontare, da uomo, le luci del giorno. Un individuo di tale fattezze, un essere umano così insignificante non merita nulla da noi, neppure l’odio. Usciamo per cortesia dal provincialismo che porta in molti a riconoscergli meriti sportivi, ricordiamoci che nessun calciatore potrebbe vincere da solo. Nessun atleta in uno sport collettivo può determinare autonomamente nulla all’interno di una partita. L’innominato per antonomasia si è abbuffato al banchetto azzurro, prosciugando il seno prodigo di attenzioni per lui ed è arrivato, grazie ad una squadra al suo servizio, ad essere uno dei migliori nel mondo. Ciò che resta di una storia, ineluttabilmente, è il finale. La fine rappresenta gli esseri umani, il loro modo di rispettare ciò che sono stati e le persone con le quali sono cresciuti. Nulla gode dell’immortalità, nulla ha il beneficio dell’infinito in una vita che, chiedendo scusa agli scaramantici, nel momento esatto in cui sboccia è noto a tutti che prima o poi dovrà finire. Appunto, la morte. Nessuna iperbole forzata, nessuna esagerazione figlia di una città scenografica e teatrale. L’innominato è morto, sportivamente, un anno fa per i colori azzurri. Come polvere ha tolto il disturbo da Napoli volando lontano, lì dove probabilmente l’ambiente è più consono alle proprie aspirazioni e fattezze somatiche. Quando varcherà quei cancelli la risposta migliore al suo tradimento è una e una soltanto: il silenzio. Ogni qualvolta toccherà il pallone dovrebbe esserci silenzio, lo stesso che si dedica prima che inizino le partite per ricordare qualcuno prematuramente scomparso. Un silenzio assordante che squarcia il rumore delle chiacchiere, che dilania l’animo di chi potrebbe cibarsi dell’odio per far ancora più male.

Ricordiamoci che lo stadio, per noi, è come un tempio in cui andiamo in pellegrinaggio ogni domenica per professare la nostra fede: il Napoli. La maglia azzurra, il suo colore che sposa la vita, che abbraccia la poesia del mare, che bacia l’infinito del cielo amoreggiando con il sole al suo tramonto. In questo noi crediamo, in questo noi confidiamo e per questo noi lottiamo. Lottiamo da sempre, e per sempre lotteremo. Lotteremo, appunto, come i nostri avi combatterono nelle quattro giornate di Napoli. Combatterono per liberare la nostra città dall’invasore oscuro, che si vestiva di bianco e di nero e voleva fare razzie nel nostro piccolo, immenso paradiso. Combatterono e vinsero, tanto da meritare la medaglia d’oro al valore: “con superbo slancio patriottico sapeva ritrovare, in mezzo al lutto ed alle rovine, la forza per cacciare dal suolo partenopeo le soldatesche germaniche sfidandone la feroce disumana rappresaglia. Impegnata un’impari lotta col secolare nemico offriva alla Patria, nelle “Quattro Giornate” di fine settembre 1943, numerosi eletti figli. Col suo glorioso esempio additava a tutti gli Italiani, la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria”. I napoletani, figli di Partenope, hanno da sempre coltivato un animo fiero. Hanno da sempre accresciuto il proprio spirito attraverso la civiltà, la cultura e la rappresentazione delle belle arti, che fossero esse culinarie o altre svariate arti come la celeberrima scuola teatrale o universitaria. Si sono vestiti con i colori della dignità, dell’orgoglio verso la propria terra difendendola da ogni invasore. La storia insegna che, spesso, gli invasori non fossero solo e soltanto stranieri ma anche e soprattutto appartenenti allo stesso stivale. Razzie, furti, uccisioni e devastazioni hanno contrassegnato la storia recente di questa città ma, nonostante tutto, nessuno ha rubato a questa terra il tesoro più grande ed inestimabile: il cuore. La ricchezza “ottenuta”, il benessere conquistato con il sangue non ha mai nobilitato chi, per nascita e dinastia, è sempre marcito nel buio avvolto da pestilenziali colori tristi, malinconici e privi di armonia: in bianco e nero.

“Per il nostro popolo non saranno due partite come le altre, la maglia che indossate è l’unica cosa che conta e non va mai tradita. In campo non sarete mai soli: 1 comandante, 11 briganti e la passione di una città intera… avanti UNITI E FIERI!

Dal 2 aprile al 5 aprile, un lasso di tempo breve e infinito allo stesso tempo. Quattro giorni e una storia che spalleggia la realtà di tutti i giorni, passato che si interseca nel presente, sempre noi contro di loro. In quella che dovrà essere una “battaglia”, in quella che sarà la nostra “guerra”, armiamoci delle nostre armi peculiari: forza, onore, identità. Tutto il resto, proprio tutto il resto, non conta nulla. La nostra storia è autentica, rarefatta e ramificata nei libri di storia. Quella altrui, scusandoci dell’ignoranza, non la conosciamo e ne troviamo traccia solo in ricostruzioni artificiose. Nulla è cambiato in fondo.

“A dire la verità a volte un pò di paura l’ho, è vero. Quando sono sul ring e quando le prendo e le braccia mi fanno tanto male che non riesco più ad alzarle, allora penso quanto vorrei che mi beccasse sul mento così non sentirei più niente. Però poi c’è un’altra parte di me che viene fuori e non ha tanta paura, c’è un’altra parte di me che non vuole mollare, che vuol fare un altro round, perché fare un altro round quando pensi di non farcela è una cosa che può cambiare tutta la tua vita”.

P.S. O’ purpo s’adda cocere cu’ l’acqua soja…

 

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