Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (atto I)


Uno degli scenari più plausibili è che Lorenzo Insigne si senta insicuro.

Dopotutto siamo abituati ad associarlo a un futuro remoto della Nazionale e del Napoli, a ritenerlo, nel migliore dei casi, un calciatore che deve ancora migliorarsi, eppure il 4 giugno Insigne compirà trent’anni. E anche se riconosco che è impossibile sapere se una sensazione del genere gli sia passata per la testa, o abbia mai influito sulle sue prestazioni, è altrettanto vero che trent’anni potrebbero essere il confine giusto per tracciare una prima linea, la prima (provvisoria) storicizzazione della carriera di un atleta professionista. Delle sue contraddizioni, dei suoi apici e quindi delle sue sconfitte.

Insigne sta vivendo una delle sue migliori stagioni dal punto di vista personale: il 31 marzo è stato premiato come miglior calciatore della Serie A, mentre il CIES lo ha inserito tra i dieci migliori giocatori in Europa per rendimento. Il suo stato di forma era così eccezionale che, dopo l’azione in cui ha dribblato cinque giocatori della Fiorentina prima di mandare in porta Lozano, Mancini lo aveva definito «un calciatore unico», di sicuro «il meno sostituibile» della nazionale italiana. Anzi, la sua recente efficacia sottoporta aveva portato anche a una polemica sul suo utilizzo nel Napoli, perché secondo il CT Insigne «va sfruttato negli ultimi 25 metri», ma «se gli chiedi di giocare a campo aperto fa fatica». Poi il 7 aprile, dopo l’assist da karateka per Osimhen contro il Crotone e il gol su rigore contro la Juventus, ha raggiunto Cavani (105 gol) al quinto posto nella classifica all-time dei marcatori del Napoli. Per la prima volta i tifosi sembrano essere contenti di lui (e questa non è una cosa di poco conto: anche se Insigne è il capitano del Napoli da più di due anni, non perde occasione per sottolineare di «non aver mai avuto un buon rapporto con la piazza», anzi di aver «messo sempre il cuore per questa maglia, anche quando mi fischiavano». E il tutto sarebbe meno interessante se non dicesse alcune di queste cose proprio quando è in Nazionale).

Uno dei momenti in cui Insigne diventa semplicemente inarrestabile.


Eppure, se ripenso a questi nove anni (2012 –> 2021), che potremmo chiamare “Era Insigne” – se non altro per il fatto che tolti Cavani e Higuain, che comunque hanno avuto un ciclo breve, gli altri due “simboli” del Napoli recente, Hamsik e Mertens, sono entrati e usciti periodicamente dalle gerarchie con prepotenza e a fatica, mentre Insigne è sempre stato un riferimento centrale –, i primi ricordi che scorgo sono legati ai rimpianti. La disperazione di Udine il 3 aprile 2016, trasformata poi da Higuain in rabbia sia nel gol dell’1-1, sia nello spintone a Irrati che costò a lui tre giornate di squalifica e al Napoli la lotta per il titolo. O ancora: l’immagine del pianto di Allan a Firenze che provava ad asciugarsi gli occhi con la parte interna della maglietta, quando ormai avevamo capito tutti che il Napoli non avrebbe vinto il terzo Scudetto nonostante la vittoria della settimana prima allo Stadium e i 91 punti finali. Dai suoi discorsi, sembra che Insigne tenga molto a quella stagione, e forse da tifoso posso capire cosa intende quando dice che è una ferita «difficile da suturare» perché «ci è crollato il mondo addosso». Quella è stata l’ultima stagione in cui il Napoli ha davvero lottato per vincere (nel 2018/19 siamo finiti secondi a -11 dal primo posto e nella stagione 2019/20 settimi a -21 dalla Juve), e deve essere uno stillicidio emotivo difficile da sopportare per uno ambizioso come lui che dal 2013 ogni estate cerca di motivare l’ambiente dicendo: «quest’anno possiamo lottare» o «questo è il Napoli più forte in cui ho giocato».

Le lacrime di Allan sono un ricordo ancora difficile da digerire per molti tifosi del Napoli. (Fonte foto: SSC Napoli)

Nel ventesimo episodio dell’ottava stagione di How I Met Your Mother c’è una scena in cui il protagonista, Ted Mosby, un architetto newyorkese in cerca dell’anima gemella, capisce di essere solo perché i suoi amici si sono accasati tutti. È una scena straziante, in quanto presuppone – oltre alla solitudine, che di per sé è neutra – un’incompiutezza: Ted è l’unico del suo gruppo di amici che non ha ancora trovato una strada. Una certezza. Ecco, quando parlo dell’insicurezza di Insigne mi riferisco a una sensazione di questo tipo: la paura di fronte alla quotidianità, l’orrore alle porte dell’essere dimenticati, dell’oblio, della sconfitta. Chissà che Insigne non si stia chiedendo: si è giovani o vecchi, a trent’anni? Si ha ancora tempo per aggiustare i propri errori o si è vittima di sé stessi?

D’altronde, se smettesse ora, in questo momento, cosa ci trasmetterebbe il nostro ricordo di lui? Finirebbe in qualche anfratto della nostra memoria sportiva come uno di quei calciatori molto tecnici ma che finiscono per diluirsi con il tempo, o ci ricorderemmo di lui per essere stato l’unico calciatore italiano di quest’epoca che ha segnato a Liverpool, Real Madrid, PSG (x2) e Barcellona? Insigne avrà mai un’uscita di scena da imperatore decaduto, mentre i suoi sudditi lo rimpiangono già con il volto tra le mani, consumato dall’emozione?

– Leggi anche: Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (atto II)

– Leggi anche: Lorenzo Insigne. Ogni talento è una maledizione (atto III)

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